di Luigi Marattin per Il Foglio
Sovranismo e conservazione si alimentano l’uno con l’altra. Capire la scommessa studiando le nuove divisioni del mondo.
Il populismo cattivo che esprime (Salvini) non è battuto e va sconfitto nella società. E credo che le liturgie di un Pd organizzato scientificamente in correnti e impegnato in una faticosa e autoreferenziale ricerca dell’unità come bene supremo non funzionino più”. In un’intervista a Repubblica Matteo Renzi ha annunciato l’addio al Partito democratico, sottolinenando che la formazione di “gruppi autonomi” che “nasceranno già questa settimana” saranno “un bene per tutti: Zingaretti non avrà più l’alibi di dire che non controlla i gruppi pd perché saranno ‘derenzizzati’. E per il governo probabilmente si allargherà la base del consenso parlamentare, l’ho detto anche a Conte. Dunque l’operazione è un bene per tutti, come osservato da Goffredo Bettini. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Il ragionamento è più ampio e sarà nel Paese, non solo nei palazzi”.
Lo scorso gennaio scrissi su questo giornale un’articolata riflessione non certo sulla scomparsa delle categorie politiche, ma solo sulla loro evoluzione a seguito di quello che ho chiamato il Grande Shock: il periodo di cambiamenti (senza precedenti) avvenuto nel mondo tra il 1989 (fine dell’era geopolitica post-seconda guerra mondiale) e l’inizio di questo decennio (con le conseguenze della prima grande crisi della globalizzazione), passando per la rivoluzione digitale, l’appannamento delle capabilities dello Stato nazionale di adempiere pienamente al contratto sociale, le trasformazioni radicali del mondo produttivo, il mercato globale.
Quella riflessione – o quantomeno quel livello di analisi, anche da parte di chi non condivide la mia tesi – può forse offrirci la possibilità di guardare con occhi più attenti quanto sta succedendo nel Partito democratico. E di porci la fatale domanda: ma è davvero solo una questione di sottosegretari, delle loro provenienza geografica, di antipatie tra leader o di incompatibilità tra ego particolarmente sviluppati?
Eravamo in tanti, da un po’ di tempo, a predire (o forse semplicemente a sperare) che prima o poi in Italia sarebbe iniziata una fase di scomposizione e ricomposizione dell’offerta politica, vessata da un quarto di secolo di precarietà fatta di formazioni eterogenee e instabili, di partiti personali e/o aziendali e di saccheggiamento della botanica (Querce, Margherite, Ulivi). In tanti ci attendevamo il “colpo dello starter” di tale fase, per giungere finalmente a una stabilità dell’offerta politica (corrispondente alle nuove categorie del mondo globalizzato) a cui magari far poi corrispondere una stabilità delle regole elettorali, anch’esse oggetto negli ultimi venticinque anni di una precarietà insopportabile e inefficiente. Per poi, chissà, arrivare anche ad ammodernare la governance istituzionale della Repubblica e dare finalmente il via ad una democrazia sana, normale, efficiente.
In pochi tuttavia potevamo immaginare che il “colpo dello starter” di tutto ciò (o quantomeno del primo step) fosse il suicidio volontario ferragostano di Matteo Salvini. Ma tant’è, le vie della politica sono oscure e imprevedibili. Fatto sta che quel gesto partorito tra cubiste e mojito sulle spiagge romagnole – e di cui Salvini si è rapidamente ma tardivamente pentito, finendo poi addirittura per offrire la premiership a Di Maio – e la formazione dell’inedita maggioranza Pd-M5S-Leu hanno fornito l’opportunità di far partire una fase di rimodulazione dell’offerta politica italiana.
Queste fasi sono imprevedibili, ma a volte non necessariamente lunghe. Tanto è vero che la fisionomia di dove – “a legislazione vigente” – si andrà a parare sembra già emergere in modo abbastanza chiaro.
Vi è un blocco sovranista (Salvini-Meloni) estremamente caratterizzato e pienamente in linea con le – peggiori, dal mio punto di vista – esperienze populiste internazionali: ritorno alla sovranità esclusiva nazionale, chiusura (culturale ed economica), disprezzo per i vincoli (costituzionali, giuridici, economici), ampio e sostanzialmente illimitato utilizzo di deficit e espansione monetaria, prevalenza del ruolo dello stato in economia. Questo blocco era in piazza Montecitorio la settimana scorsa, con persino qualcuno che faceva i saluti romani, ed è forte e radicato nel paese; uno degli errori più grandi che si possano fare è considerarlo già in declino nell’opinione pubblica. Costoro negano alla radice la necessità di cambiamento legata al Grande Shock della Globalizzazione, considerato poco più che un “complotto dei poteri forti”, e sostanzialmente promettono un ritorno ai (per loro) fasti degli anni Settanta e Ottanta. Per loro infatti non è rilevante che proprio in quel periodo si siano attuate le politiche che hanno creato così tanti problemi alle generazioni attuali: per i sovranisti-populisti l’essenziale è il presente, mai il futuro.
Poi si sta consolidando un blocco alternativo, che offre una risposta diversa al Grande Shock: non negazione, ma protezione passiva dell’individuo, anch’essa mirata comunque a eliminare la necessità del cambiamento. Questo blocco parla di redistribuzione della ricchezza (e non di una sua produzione, vista anche quasi con sospetto: gli imprenditori non sono motore del processo produttivo, ma sono “padroni”, come li ha definiti qualche giorno fa il neo-ministro Provenzano), di ripristino e intensificazione delle tutele del welfare novecentesco, non disdegna ipotesi di tassazione patrimoniale, ripone fiducia incondizionata ex-ante in ogni meccanismo pubblico (acqua pubblica, banca pubblica degli investimenti, gestione pubblica delle autostrade), è affezionato alle forme tradizionali di intermediazione politica, guarda con malcelato sospetto all’iniziativa privata. Questo blocco – in via di formazione – comprende buona parte del M5S (quella uscita vincitrice dal derby agostano “Pd o Lega?”, maggiormente legata a Fico e piuttosto diversa dal M5S visto negli scorsi 14 mesi), buona parte del Partito democratico (che ha completato la sua transizione pochi giorni fa, intonando simbolicamente “Bandiera Rossa” al comizio del segretario e cancellando negli ultimi mesi ogni traccia di approccio culturale diverso), e Leu (di cui non a caso si pronostica a breve un ingresso nel Pd). Il sigillo sul percorso formativo di questo blocco è stata l’intervista a Repubblica di Dario Franceschini – anche qui, come spesso accade, prontamente sposata dal segretario – in cui battezza un’alleanza strutturale tra Pd e M5S anche alle elezioni regionali e amministrative. Prima ancora di verificare la tenuta e l’efficacia della partnership politica nazionale. Invero, addirittura prima ancora che parta. Questo blocco è indubbiamente meno consolidato di quello sovranista, ma numerosi segnali ne fanno intravedere una gestazione già avanzata: non solo l’immediata e unanime adesione all’idea delle alleanze strutturali in tutti i turni elettorali da parte dei gruppi dirigenti, ma anche una sostanziale adesione degli “zoccoli duri” dei rispettivi elettorati tradizionali di riferimento, stando perlomeno ai sondaggi. E anche qui, del resto, non mancano i riferimenti internazionali: le esperienze, o quantomeno i tentativi, di ridisegnare la cultura social-democratica tradizionale con innesti movimentisti va dalla Ocasio-Cortez negli Usa a Corbyn nel Regno Unito, passando per i tentativi di rianimazione del socialismo francese.
Io non credo che queste due offerte politiche – quasi del tutto esaustive dell’attuale panorama – facciano giustizia non solo della domanda politica presente in Italia, ma anche delle concrete possibilità di guidare il nostro paese verso quel cambiamento – individuale e collettivo – che molti di noi, al contrario di altri, considerano necessario e utile per portare l’Italia a cogliere tutte le opportunità del suo futuro. La parola d’ordine non può essere né negare il cambiamento né proteggere passivamente dal cambiamento, bensì accompagnare al cambiamento non lasciando nessuno solo. Il futuro del mercato del lavoro italiano non risiede nel ritorno al sistema fordista novecentesco, all’abolizione del Jobs Act e al ripristino dell’art.18, bensì nella riforma radicale del sistema di formazione professionale, nella sfida della produttività di sistema per alzare i salari, nella cogenza della contrattazione collettiva con la legge sulla rappresentanza sindacale e in un maggior ruolo della contrattazione di secondo livello, nella tutela e valorizzazione del lavoro autonomo, specialmente se nelle nuove tecnologie. Il futuro del welfare italiano non sta nell’impiegare decine di miliardi per mandare tutti in pensione a 62 anni, ma nel prevedere forme di flessibilità in uscita per la figure più deboli e in un orientamento della spesa verso asili nidi, sostegno alle nuove famiglie, alla genitorialità, all’occupazione femminile. Il futuro del Mezzogiorno non sta in “più soldi, e poi il resto verrà da se” o nelle banche pubbliche, ma in un cambio radicale della classe dirigente meridionale, una lotta senza quartiere alla criminalità organizzata e una valorizzazione dei tanti, nel Sud, che hanno voglia e capacità di fare senza necessariamente conoscere qualcuno. Il futuro del modo in cui stanno insieme i livelli di governo di questa Repubblica non sono gli slogan di Salvini o il “tutto cambi affinché nulla cambi” di chi vi si è opposto con ideologia di segno uguale e contrario. Ma sta nel disegno di un federalismo in cui convivano appieno Autonomia e Responsabilità, con i livelli di governo depositari di competenze esclusive e strumenti fiscali esclusivi (oltre che fondi perequativi basati sui fabbisogni standard e livelli essenziali delle prestazioni), ma senza più “Salva…X, Y, Z” quando un amministratore non è in grado di emanciparsi dalla dipendenza verso la spesa pubblica. Il futuro del mercato del credito non sta negli strali contro le banche ma nello sviluppo di un mercato dei capitali come canale alternativo a quello bancario, per fornire sempre maggiori opportunità di finanziamento a chi produce. E ancora: il futuro della scuola sta in una valorizzazione del merito, perché non è giusto trattare allo stesso modo un insegnante che si fa in quattro per trasmettere sapere e valori e uno che entra in classe svogliato; il futuro dell’università è nella valorizzazione del suo essere “fabbrica di futuro”, rimanendo orgogliosamente pubblica ma liberata dalle maglie del diritto amministrativo, e in una politica del diritto allo studio che consenta anche al figlio di un disoccupato di frequentare Harvard, se “capace e meritevole”; il futuro della finanza pubblica sta in un piano industriale della pubblica amministrazione per ammodernarla e farla funzionare meglio e a costi più bassi, un graduale cammino di riduzione della pressione fiscale sotto al livello medio europeo; il futuro della politica di competitività sta nel sostegno continuo (e non assistenziale) a chi ogni mattina “alza la saracinesca” cercando di orientarsi tra un dedalo di complicazioni e ostacoli. La scommessa del futuro sta in un grande piano di alfabetizzazione digitale del paese, non dissimile da quello fatto a metà del secolo scorso per sradicare l’analfabetismo. E nella ripresa di quello che in Italia non si fa più da tempo: formare, selezionare e ricambiare classe dirigente. Da quando abbiamo smesso di farlo, sono iniziati i nostri problemi più seri.
Sono solo alcuni esempi, e necessariamente approssimativi per brevità. Ma è mia convinzione che all’Italia al momento manchi un’offerta politica che racconti agli italiani che, nonostante le paure disseminate a piene mani in questi anni, il nuovo mondo offre ancora più opportunità che pericoli. L’errore è stato credere che queste opportunità si diffondessero quasi automaticamente e si distribuissero ugualmente: non è stato così, ed è da lì che nasce la paura che alimenta sovranismo e conservazione. Occorre invece disegnare nel modo più inclusivo possibile un percorso di cambiamento radicale, che parta dall’individuo ma che non lo faccia mai sentire solo, inadeguato, escluso. Un progetto culturale che parli alla società italiana (a tutta, non solo agli elettorati tradizionali di riferimento) e proponga un nuovo Patto, dopo quelli – in gran parte scellerati – che hanno retto implicitamente o esplicitamente la Prima Repubblica.
In molti sono e saranno tentati dal banalizzare questa discussione con gli ennesimi slogan. Alcuni dei quali potrebbero riguardare il famigerato “centro moderato”, Sacro Graal da almeno due decenni di ogni nuova avventura politica. Ma chi ha capito bene il livello della sfida, avrà colto che anche questa espressione è un retaggio di un mondo che non esiste più. Fatta salva la preferenza verso le modalità di espressione soft (alle quali anche il sottoscritto, con qualche fatica, proverà ad aderire) gran parte delle cose accennate sopra non ha proprio nulla di “moderato”… si tratta, come ho detto, di innestare un cambiamento graduale ma radicale di pressoché ogni dimensione della vita pubblica di questo paese. E lo stesso concetto di “centro” è figlio di un segmento politico – quello delimitato da “destra” e “sinistra” – che è stato stravolto e ruotato fino a giungere ad un nuovo spazio di confronto tra opzioni politiche, all’interno del quale le tradizionali categorie possono forse servire a rassicurare qualcuno. Ma non servono a realizzare un processo strutturale di cambiamento del paese. Che in ultima analisi rimane non solo l’obiettivo primario, ma anche il motivo per cui tanti di noi si sono avvicinati alla cosa pubblica. E per cui continuano a farlo, magari con il rinnovato entusiasmo di una nuova avventura che inizia.