di Luigi Marattin per Il Foglio
Una nuova Irpef contro una tassazione iniqua e ormai inadeguata. Dovrà essere universale, semplificata e dovrà avere un profilo di progressività più coerente con i lavori attuali. Una riforma da accompagnare con un piano di revisione della spesa.
La storia ci ha insegnato che una delle leggi non scritte della politica italiana è quella delle riforme graduali e/o marginali. Se proprio si è costretti a fare una riforma, o deve essere radicale ma estremamente graduale (come la riforma Dini delle pensioni nel 1995) in modo che si faccia sempre in tempo a tornare indietro, o deve essere immediata ma cambiare solo marginalmente rispetto allo status quo (e qui gli esempi abbondano davvero). Oppure devono essere sia graduali che marginali, così da minimizzare ogni possibile forma di turbamento dell’esistente. Tanto l’importante è come vengono comunicate, mica altro. Quelle rarissime volte che invece le riforme sono immediate e radicali – come la riforma Fornero del 2011 o il Jobs Act del 2015 – entrano subito nella leggenda popolare e politica come mali assoluti, piaghe bibliche dei nostri tempi e responsabili di tutti i guai dell’Italia e perché no del mondo. E a nulla vale mostrare i dati che dimostrano l’esatto contrario: cosa volete che siano i risultati positivi raggiunti – ad esempio in termini di aumento dell’occupazione e riduzione dei licenziamenti – di fronte alla Grande Colpa di aver osato cambiare e per di più in fretta?
Ma la residua possibilità di questo paese di farcela risiede nel rottamare non già (o non solo) le persone, bensì le leggi non scritte della politica, in primis questa. Ad esempio, da diversi mesi Italia Viva sostiene che all’Italia serva una immediata e incisiva riforma fiscale, che abbia il suo punto principale in una radicale riforma del sistema di tassazione sui redditi delle persone fisiche.
L’Irpef nasce nel 1973, in un mondo totalmente diverso da quello attuale. In questi 47 anni è stata comunque un cantiere aperto, confuso ed estremamente disordinato: le numerosissime innovazioni si sono succedute senza sistematicità, spesso sull’onda dell’emergenza, si sono stratificate e hanno finito per creare un sistema di tassazione dei redditi iniquo, inefficace e inefficiente. Cercherò ora dapprima di esporre perché l’Irpef è inadeguata e deve essere completamente riformata, e poi quali sono le principali direttive secondo cui a mio parere si dovrebbe procedere.
Vi sono almeno quattro problemi nell’attuale sistema. I primi due hanno a che fare con le dimensioni dell’efficacia/efficienza, gli ultimi due con quella dell’equità.
Il primo problema dell’Irpef è che è complicata; è, invero, diventata una delle imposte più complicate del mondo. Basta andare sul sito dell’Agenzia delle Entrate per verificare che i manuali per comprenderne il funzionamento contengono ormai diverse centinaia di pagine. Alcuni meccanismi interni, quali ad esempio le detrazioni per i carichi familiari, hanno raggiunto livelli tali di complessità e stratificazione che le persone in grado di spiegarne il funzionamento dettagliato si contano ormai sulle dita di una mano. Quello che molti sembrano dimenticare è che esiste un rilevantissimo costo sociale della complessità. Un sistema fiscale complesso è infatti più semplice da aggirare, e meno facile e più costoso da controllare. E’ meno accountable, e meno trasparente. Che ne danneggia non solo la compliance ma anche il corretto funzionamento. Il primo obiettivo quindi è creare un’imposta sui redditi che sia la più semplice tra le economie avanzate (e no, non c’entra la flat tax, che infatti tra le economie avanzate non esiste).
Il secondo problema è che un’imposta inefficiente, perché disincentiva il lavoro nei punti della distribuzione del reddito in cui, invece, dovrebbe maggiormente incentivarlo. Detta in altre parole, è un’imposta troppo progressiva là dove non lo dovrebbe essere (sui redditi medio-bassi) e forse non abbastanza progressiva là dove invece lo dovrebbe essere (i redditi alti e altissimi). Il combinato disposto di aliquote troppo ripide (il 38 per cento scatta troppo presto, addirittura dopo i 28.000 euro) e dell’intricatissimo gioco di deduzioni e detrazioni crea la situazione paradossale di aliquote marginali effettive (cioè quello che lo stato ti preleva quando guadagni un euro in più) altissime: il 30 per cento a partire da 17-18 mila euro di reddito annuo lordo e un incredibile 40 per cento a partire dai 30 mila euro. A questi livelli, in una parte della distribuzione in cui l’elasticità dell’offerta di lavoro è probabilmente più alta, il sistema disincentiva strutturalmente l’offerta di lavoro. E in un paese in cui il tasso di occupazione è di dieci punti più basso della media europea e il tasso annuo di crescita del pil è di 4-5 volte inferiore, agire su questo punto è la pre-condizione per qualsiasi politica economica che miri a irrobustire in modo permanente la crescita in Italia.
Il terzo problema dell’Irpef è che è un’imposta iniqua. Essendo figlia di una stagione in cui il lavoro dipendente era culturalmente (e in una certa misura persino economicamente, data la struttura produttiva fordista) sovraordinato rispetto al lavoro autonomo, contiene strutturali differenze di trattamento a sfavore del secondo che ormai sembrano totalmente fuori dal tempo. Un solo esempio per tutti: qualcuno è in grado di spiegare perché le agevolazioni per i familiari a carico valgono solo per i lavoratori dipendenti e non per quelli autonomi? C’è un motivo razionale – data l’emergenza demografica (che negli anni 70 non c’era, e oggi è forse il primo problema strutturale italiano) – per cui un dipendente delle Poste con 50.000 euro di reddito annuo debba ricevere un supporto dal fisco per i figli a carico, e un barbiere che ne guadagna la metà invece no? Le stratificazioni occorse nel corso dei decenni hanno poi creato distorsioni e iniquità anche nel senso opposto. E’ il caso del regime forfettario per i redditi da lavoro autonomo fino a 65.000 euro (la cosiddetta “flat tax” per le partite Iva), che fa sì che due lavoratori con lo stesso identico reddito netto – uno autonomo e uno dipendente – siano in certi casi tassati diversamente per qualcosa come una ventina di punti percentuali (analogo discorso potrebbe essere fatto per la possibilità – concessa solo ad alcuni autonomi e non ai lavoratori dipendenti – di dedurre i costi sostenuti per la produzione del proprio reddito). E, esattamente come accade nel calcio dove se un arbitro concede un rigore inventato a una squadra per compensare lo stesso errore commesso a favore dell’altra, due iniquità non si elidono, ma si sommano.
Il quarto problema, anch’esso inerente l’equità, è la mancanza di universalità. L’Irpef nasce come imposta universale, vale a dire applicabile a tutti i redditi delle persone fisiche, di qualsiasi natura essi fossero. Nel corso del tempo, col proliferare dei regimi sostitutivi: sui redditi da capitale, su quelli da lavoro autonomo fino a una certa soglia, sugli utili distribuiti ai soci, sui redditi da locazione e molti altri ancora. Nei fatti è divenuta un’imposta praticamente solo per redditi da lavoro e da pensione. Con effetti nefasti non solo sull’equità di trattamento, ma anche sulla progressività, specialmente sulla fascia alta e altissima della distribuzione dei redditi.
Vi sono poi altri difetti, a cominciare dall’ormai datato e inefficiente trattamento dei redditi bassissimi sui quali, come se non bastasse, intervengono le storture del reddito di cittadinanza. Ma direi che il quadro è sufficientemente chiaro per comprendere come non abbiamo certo bisogno del ritocco di qualche aliquota o scaglione qui, o di una detrazione o deduzione là. Dobbiamo azzerare tutto, e disegnare il sistema completamente daccapo.
Già, ma come? Una risposta dettagliata non può che venire da un confronto approfondito ed esteso non solo tra le forze politiche, ma anche tra le rappresentanze sociali e i numerosi studiosi che in questi decenni hanno evidenziato le carenze dell’Irpef e le necessità di una riforma radicale. Al momento, anche per non pregiudicare questo percorso della cui necessità siamo profondamente convinti, si possono solo individuare alcune direttrici su cui impostare la riforma.
La nuova imposta dovrà necessariamente essere estremamente semplificata, in modo da favorire la compliance, la riscossione e le attività di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria. Dovrà essere universale, cioè riguardare tutti i redditi in capo alle persone fisiche, quale ne sia la fonte: probabilmente andranno salvaguardati solo specifici e selettivi regimi sostitutivi, come ad esempio la cedolare secca sugli affitti che ha dimostrato di funzionare bene. Dovrà contenere un profilo di progressività molto più coerente con le necessità che hanno i sistemi di tassazione del lavoro di oggi e, soprattutto, di domani. Negli ultimi decenni infatti si è assistito a una riduzione del rapporto lavoro/capitale, dovuto sostanzialmente alla diminuzione del prezzo relativo del capitale, a causa soprattutto dell’innovazione tecnologica. Questa tendenza non potrà che aumentare, sia per l’automazione dei processi produttivi che per la probabile riduzione permanente del tasso di interesse naturale, dovuto all’eccesso strutturale di risparmio sul mercato mondiale. Per riequilibrare il rapporto tra input produttivi, quindi, occorre tassare il lavoro molto meno di adesso e incentivarne il più possibile l’offerta, soprattutto laddove il sotto-utilizzo del fattore è più pronunciato, come in Italia, e soprattutto nella parte bassa e centrale della distribuzione dei redditi. Senza contare il poderoso stimolo alla domanda aggregata (e quindi alla stessa domanda di lavoro) che verrebbe dal lasciare diverse migliaia di euro all’anno in più nelle buste paga dei lavoratori.
Raggiungere questo obiettivo (meno progressività per i redditi medio-bassi, più progressività sui redditi alti e altissimi) non implica moltiplicare il numero di aliquote e scaglioni, che anzi a mio parere andrebbero ridotti, anche al fine di conseguire l’obiettivo di semplificazione. E neanche andare ad agire sulla giungla di deduzioni e detrazioni, che invece potrebbe essere completamente eliminata, avendo cura di salvaguardare quella per la prima casa e per i contributi previdenziali. Andrebbe invece a mio avviso considerata l’introduzione di un minimo esente di dimensioni non basse (aumentato per ogni familiare a carico), che non funzioni affatto come l’attuale no-tax area ma che rappresenti una somma non soggetta a tassazione, qualunque sia l’ammontare del reddito lordo. Questo consentirebbe non solo di conseguire una progressività più chiara e semplice, ma anche di affermare un concetto liberale che non fa mai male: qualunque sia il sistema fiscale e qualunque sia il tuo reddito, lo stato non ti tocca la somma che è considerata necessaria per vivere. All’interno della nuova imposta, infine, dovrebbero finalmente trovare spazio due risposte nuove ai problemi, rispettivamente, della denatalità e dei working poors: un sistema di sostegno alla natalità (probabilmente sotto forma di credito di imposta) che superi le discriminazioni esistenti, e un’imposta negativa per aiutare, incentivando il lavoro, chiunque guadagni meno del minimo esente o di qualsiasi soglia si vorrà fissare.
Per realizzare questa ambiziosa sfida devono ricorrere tre condizioni: una di natura economica, una culturale e una politica. Quella economica è la disponibilità a guardare questa vicenda in congiunzione con una riforma Iva che innesti semplificazione ed efficienza anche nelle imposte indirette e che sradichi totalmente e permanentemente la spada di Damocle delle clausole di salvaguardia. Per essere chiari, alla fine di questa complessiva riforma fiscale, il vantaggio netto in termini di riduzione del gettito fiscale complessivo deve sempre essere a due cifre. La condizione culturale è accompagnare la riforma fiscale a un corposo piano di revisione della spesa, per limitare gli effetti (comunque non banali) sul deficit. E la condizione politica è, al solito, quella più rilevante. I governi di coalizione sono sempre caratterizzati da un tasso di competizione particolarmente elevato tra i partiti di maggioranza, in tutto il mondo. Questo è ancor più accentuato in Italia, dove siamo reduci da venticinque anni di sistemi elettorali ibridi che ci hanno dato campagne elettorali maggioritarie (e quindi caratterizzate da una forte contrapposizione) ma governi proporzionali (in cui la cosa fondamentale è trovare un difficile accordo cooperativo). A rafforzare la tendenza al litigio vi è poi il quadro politico contingente, in cui il principale partito di governo è nato sul desiderio esplicito di distruggere tutti gli altri partiti (con cui invece ora ci si trova a governare), e in cui vi sono evidenti le tossine della scissione del Pd dell’autunno scorso. Ma se si vuole affrontare un’impresa ambiziosa come la prima vera riforma fiscale da mezzo secolo a questa parte, occorre mettere da parte l’approccio seguito finora, in cui sembra più importante chi propone una cosa, piuttosto che cosa propone. E delle tre condizioni, questa mi sembra la più difficile da conseguire. O forse mi sbaglio?