Ci sono solo due possibili spiegazioni del perché la leadership del Pd nell’ultimo anno abbia gradualmente – ma costantemente – perseguito una “alleanza strutturale” col M5S.
1) La logica egemonico-aritmetica
Si tratta di una caratteristica della prassi politica dei dirigenti della Democrazia Cristiana ai tempi della Prima Repubblica: sommare aritmeticamente le percentuali dei partiti non-lontanissimi (ai tempi erano tutti i partiti tranne – per ragioni internazionali – Msi e Pci), per “fare numero” e (provare a) governare. Al contempo – qui viene la parte “egemonica” – si pensa di poter essere il baricentro di questa alleanza, e condizionarne agilmente i contenuti e i programmi.
2) La logica politica
Qui si tratta invece della precisa volontà (al di la’ delle attuali percentuali di consenso) di costruire un’offerta politica unitaria, culturalmente attrezzata, in virtù di una visione comune dell’Italia di oggi e soprattutto di quella di domani.
Nonostante nella prima fila del Pd non manchino personalità politiche strenuamente affezionate all’opzione 1), ho troppo rispetto per il mio ex-partito per pensare che, invece, sia l’opzione 2) quella che ha motivato questo percorso politico. Semplicemente perché la “logica egemonica-aritmetica” poteva (forse) funzionare nella Prima Repubblica, ma ha totalmente fallito nella cosiddetta Seconda. Come sanno bene quei dirigenti, che l’hanno attraversata tutta da protagonisti.
Quindi il percorso di convergenza strutturale tra Pd e M5S è motivato da una visione comune dei problemi dell’Italia e di come risolverli.
E onestamente – osservando comportamenti e dichiarazioni dei principali esponenti del Pd in questi mesi – non stupisce affatto.
Si tratta di una visione politica che vede il potere e l’intervento pubblico come la soluzione, tendenzialmente, di ogni problema dell’economia. Non disdegna l’utilizzo estensivo della leva fiscale per operare redistribuzione, le cui necessità vengono viste come prevalenti rispetto a quelle della produzione. Preferisce la protezione dei gruppi sociali dal cambiamento (piuttosto che l’accompagnamento verso di esso), e ha una pressoché illimitata fiducia nel potere pubblico (e nelle sue burocrazie) nel formare e indirizzare le dinamiche sociali ed economiche, e invece scarsissima fiducia nel ruolo del mercato.
Questa offerta politica – che da qualche tempo chiamo “socialdemocrazia movimentista” – ha riscontri in tutto il mondo: da Alexandra Ocasio-Cortez negli USA al Labour inglese che si riconosce – e continua a farlo – in Jeremy Corbyn, passando per Podemos in Spagna. E il fatto che – con intensità crescente – esponenti “riformisti” del Pd come Giorgio Gori e Tommaso Nannicini rendano pubblico il loro disagio non fa che confermare questa seppur rudimentale analisi.
Un’offerta politica quindi pienamente legittima e che merita rispetto (e non lo scherno e i risolini che ha ricevuto in questi giorni), anche perché oggettivamente rispecchia quello che una parte consistente del Paese pensa e/o sogna.
Dall’altra parte vi è – e da tempo – un’offerta politica più consolidata, il sovranismo populista di Matteo Salvini e Giorgia Meloni (che sono in semplice competizione personale per mere questioni di leadership, ma esprimono pressoché totale identità culturale). Anch’esso “sezione italiana” di un’offerta politica internazionale (Trump, Farage, Le Pen, Orban, Bolsonaro) e anch’essa rappresentativa di un pezzo importante del Paese.
Coloro che sono attualmente impegnati nella politica italiana (a livello nazionale o locale) hanno due semplicissime opzioni:
1) Scegliere una di questa due offerte politiche
2) Costruirne – con pazienza e superando alcuni apparenti ostacoli – un’altra, alternativa a entrambe.