di Luigi Marattin per Il Sole 24 Ore
Da almeno vent’anni non c’è stato governo o partito politico che non abbia proposto una Grande Riforma Fiscale, poi rimasta sulla carta, ammesso che arrivasse a tale stadio. Se stavolta non si vuole proseguire questa triste saga, estremamente dannosa per la residua credibilità della politica, occorre rispondere alle seguenti domande: 1) perché questa volta “è diverso”; 2) su quale versante del pianeta fiscale agire; 3) con quali obiettivi; 4) come raggiungerli in concreto, aggregando il necessario consenso politico e degli stakeholders.
Per fare una riforma fiscale occorrono risorse a due cifre, altrimenti l’intervento non è né percepito né efficace. In questi ultimi vent’anni, questo spazio fiscale non c’è mai stato. Fu volutamente creato nel 2014 dal Governo Renzi, quando tramite un mix di deficit e spending review furono reperiti dieci miliardi. Che, complice l’esigenza di un rapido shock alla domanda aggregata dopo la pesante doppia recessione 2008-2013, furono però destinati al bonus-80 euro e non ad una riforma organica. Secondo la Nadef – nell’ipotesi di un utilizzo ottimale del Recovery Fund – nel biennio 2022-23 per la prima volta è a disposizione del policy-maker, senza ulteriori azioni discrezionali, uno spazio fiscale compatibile con una riforma sistemica. Uno spazio incrementabile tramite l’avvio immediato di una revisione della spesa che abbia effetti sul biennio 2022-2023. Un’orizzonte temporale di relativa, forse, stabilità politica. Ecco perché “questa volta è diverso”, o almeno potrebbe esserlo.
A circa mezzo secolo dall’ultima vera riforma, non c’è aspetto del fisco italiano che non necessiti di una profonda riforma. Tuttavia, per rientrare negli stringenti vincoli di realismo politico date le condizioni iniziali, è saggio perimetrarne i confini. A parere di chi scrive, è possibile un grande intervento (sull’Irpef, la principale e più usurata imposta italiana, su cui mi concentrerò) e tre interventi di contorno ma necessari (la semplificazione normativa in tre grandi codici, la riforma della riscossione e un disboscamento di tributi minori).
La riforma della tassazione dei redditi personali deve porsi quattro obiettivi.
- Semplificazione. Il manuale di istruzioni sul sito dell’Agenzia delle Entrate ha 341 pagine; quello di molti dei nostri concorrenti internazionali ne ha meno di dieci. Temo che la politica italiana non abbia ancora colto quale sia, nel mondo globalizzato, l’enorme costo della complessità.
- Sistematizzazione. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad una vera e propria fuga di base imponibile dall’Irpef; chi lo sottolinea è spesso accusato, allora, di voler rialzare la tassazione su questi redditi. Ma non è necessario: per tornare ad avere un sistema unitario e coerente, basta assoggettarli all’aliquota più bassa del nuovo sistema.
- Equità orizzontale: occorre cancellare il residuo novecentesco secondo cui redditi da lavoro di fonte diversa sono trattati in maniera così smaccatamente eterogenea.
- Equità verticale, occorre preliminarmente sfatare la leggenda che la nostra Irpef sia poco progressiva. La media delle aliquote marginali effettive comincia ad approcciare il 40% già attorno ai 15.000 euro lordi annui, per sfondare tale soglia a 18.400 e rimanere attorno o sopra al 50% dai 24.000 in poi (fonte: Bankitalia). E il 4,63% dei contribuenti – quelli sopra la soglia di 55.000 euro lordi annui – paga il 37,57% di tutta l’Irpef (fonte: Itinerari Previdenziali).
Questi due dati ci consegnano una fotografia chiara: l’attuale Irpef non ha in generale un problema di scarsa progressività, ma ha semmai – e proprio sui redditi bassi e medi – il problema opposto. L’obiettivo allora non deve essere rendere il sistema più progressivo, bensì abbassare il carico fiscale sul fattore-lavoro.
Come raggiungere simultaneamente questi obiettivi? Minimo esente a 8.000 euro (più altri 8.000 per il coniuge a carico); assegno unico universale che sostituisca e potenzi tutti gli attuali strumenti di sostengo alla famiglia; eliminazione delle tax expenditures con l’eccezione di quelle, poche, socialmente più sensibili; tre o quattro aliquote, la più bassa delle quali utilizzata per la tassazione dei redditi -da capitale, ma non solo- che si decide di sottrarre alla progressività.
Non dovrebbe infine mai essere dimenticato che il sistema fiscale è il cuore del contratto sociale, il cui pluridecennale deterioramento è forse la causa principale di tutti i nostri guai. Il “come” lo Stato ci chiede parte del nostro reddito per finanziare la spesa pubblica è importante quanto il “perchè”. La semplicità, la trasparenza e la linearità del sistema non sono solo valori pro-crescita, ma aiutano a rinsaldare il patto tra cittadini e Stato. Forse la cosa di cui abbiamo più bisogno in questi tempi così difficili.