Nei giorni scorsi il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli ha definito “interessante” l’ipotesi di cancellazione del debito che gli stati nazionali erano emesso durante l’emergenza Covid. L’affermazione suscita qualche perplessità. Sul piano del merito, perché avalla l’idea che il debito possa essere cancellato con un tratto di penna e senza alcuna conseguenza, ridando fiato alle illusioni populiste. E sul piano del metodo, perché banalizza una discussione, quella sull’Europa post-civid, necessariamente più ampia e complessa.
Si paragona spesso il Covid a un periodo bellico. Ebbene, il mondo post-seconda guerra mondiale fu deciso a conflitto ancora in corso: a Bretton Woods sul piano economico, a Yalta su quello politico. Allo stesso modo, l’Europa deve iniziare da subito a immaginare il suo assetto post-pandemia e a creare le condizioni politiche per realizzarlo. I fronti sono almeno quattro:
- proseguire la riflessione in corso su come modificare la politica antitrust -e sugli aiuti di Stato- a fronte dell’estensione del “mercato rilevante” all’intero pianeta;
- riprendere la strada delle liberalizzazioni dei flussi commerciali, sfruttando il cambio di amministrazione negli Stati Uniti e la conclusione del più grande accordo commerciale della storia (tra la Cina e 14 Paesi dell’area);
- realizzare le riforme istituzionali necessarie a rendere la governance dell’Unione più adatta a un decisionmaking efficiente e democratico.
- rivedere la politica fiscale, un fronte tre volte impegnativo perché alla sfida relativa alla gestione delle conseguenze del debito post-Covid (i) ne accompagna altre due: come evitare che la condivisione dei rischi del Next Generation Eu rimanga un’esperienza una tantum (ii) e come riformare le regole fiscali (iii). Mentre le prime due sfide sono nuove perché indotte dalla pandemia, quella sulle regole fiscali ce la trasciniamo da una ventina d’anni. Perché sia il Patto di Stabilità (1997) sia il Fiscal Compact (2012) hanno fallito: troppo rozzo (qualuno lo definì “stupido”) e privo di sanzioni, il primo; troppo complicato e poco trasparente -essendo basato su una variabile non osservabile né ex ante né ex post quale l’output gap- il secondo.
Forse è troppo ambizioso pensare che questi quattro fronti -commercio, riforme, antitrust e politica fiscale- possano essere trattati all’interno di un’unica Grande riforma. Ma è illusorio pensare che le tre sfide in cui si articola il fronte fiscale possano essere affrontate separatamente. Tanto più che a colpi di interviste o di tweet.
Occorre allora impostare una visione complessiva, quantomeno sulle sfide di politica fiscale. Su queste colonne il 21 ottobre Stefano Micossi ha proposto di utilizzare il Mes per assorbire il debito che a fine pandemia risulterà detenuto negli attivi della Bce. Alla scadenza questi titoli verrebbero ri-finanziati con emissioni nazionali a lunga scadenza il cui acquisto verrebbe sempre garantito dal Mes. In poche parole, il Mes si sostituirebbe alla Bce quale “congelatore” del debito in eccesso. Con la rilevante differenza che la “corrente elettrica del frigorifero” non sarebbe più la base monetaria stampata da Francoforte, ma le emissioni di debito comune del Mes, garantite dal capitale versato o da versare. In questo schema il Mes rafforzerebbe il suo ruolo di prestatore di ultima istanza di natura fiscale, e lo farebbe ancor più se si portasse a compimento la riforma che gli assegna il ruolo di fiscal backstop per il Fondo di risoluzione unico in caso di crisi bancarie. Una riforma giusta che fu bloccata dal veto del primo governo Conte.
Al rafforzamento del Mes quale emittente di debito “per i tempi cattivi” potrebbe affiancarsi la messa a regime del NextGeneration (l’emittente “per i tempi buoni”), che potrebbe divenire un embrione di Tesoro europeo, a condizione che vi si innesti una capacità fiscale comune in grado di garantire il servizio del debito comune usando risorse “federali” proprie e non il comodo (e intergovernativo) aumento dei contributi nazionali al Bilancio Ue. E infine, le regole fiscali potrebbero essere sostituite da step annuali -da verificarsi in maniera cogente su un orizzonte quinquiennale e tenendo conto della crescita nominale- di riduzione del rapporto debito/Pil a un valore medio europeo più realistico di quel 60% (media di fine anni ottanta) che tuttavia ancor ci trasciniamo.
Come si vede, dunque, la questione è molto più complessa del semplice “cancelliamo il debito”. Slogan, quest’ultimo, più consono ai programmi internazionali di aiuto ai Paesi in via di sviluppo che al consolidarsi dell’integrazione europea. Senza dimenticare che la sfida dell’Italia per i prossimi anni si chiama crescita, non debito. Perché se non troviamo il modo di innalzare in via strutturale il tasso di crescita medio della nostra economia, il nostro debito sarà insostenibile anche se qualcuno magicamente, dovesse cancellarne una parte.