Frankfurter Allgemeine Zeitung, Commento da Ospite esterno “Punto di Vista”. Economia, 29.1.2021, pagina 18.
Il Fondo UE Recovery non è un Regalo di Natale, pagato da Benefattori Ricchi e Disinteressati.
Di Luigi Marattin
L’errore commesso non solo dal Governo Conte ma da buona parte della politica italiana è non essere partiti dalla comprensione e diffusione di consapevolezza di cosa il Recovery Fund non è.
Non è un regalo di Natale, pagato da ricchi e disinteressati benefattori. Non è una grande legge di bilancio in deficit, le cui risorse siano da allocare con i criteri territoriali e di acquisto di consenso politico, che a tratti hanno prevalso in Italia. E non è nemmeno un nuovo fondo strutturale europeo, da utilizzare con le modalità comode e tempistiche lente con cui l’Italia ha sempre utilizzato questi strumenti.
Il Recovery Fund può e deve essere un piano industriale di ristrutturazione di un’economia con gravi problemi strutturali, che nel ventennio 2000-2019 ha fatto registrare uno dei tassi medi di crescita più bassi del mondo e il cui reddito pro-capite in termini reali è sostanzialmente lo stesso dei giorni in cui cadde il Muro di Berlino.
Questa condizione – vera responsabile dell’ondata populista delle ultime elezioni politiche del 2018 – deriva sostanzialmente da due gap: un tasso medio di occupazione femminile 2005-2019 inferiore di 12 punti rispetto all’area euro e un tasso di crescita medio della produttività totale dei fattori 1995-2019 pari a zero.
Come noto, il gap di produttività ha molteplici cause: la specializzazione produttiva, la ridotta dimensione media di impresa, l’inefficienza della fornitura di beni e servizi pubblici, le carenze del sistema formativo, sia in scuola, università sia professionale, il malfunzionamento del mercato dei fattori produttivi, la scarsa concorrenzialità del settore dei servizi, la scarsa diffusione di infrastrutture e tecnologie digitali. E una inefficiente governance della Repubblica, che conserva l’impianto del Dopoguerra con modifiche peggiorative (quali il rapporto Stato-regioni e leggi elettorali che cambiano a seconda delle convenienze del governo in carica). Così ha prodotto nel Dopoguerra 29 capi del governo contro gli 8 della Germania.
Non tutti questi problemi sono affrontabili all’interno del NextGeneration EU. Ma basterebbe prendere poche priorità e immaginare un piano strutturale di riforme profonde, da accompagnare – se necessario – con la necessaria spesa una-tantum. Ma l’ordine deve essere questo: riforme accompagnate da spesa necessaria per la loro implementazione. Non spesa accompagnata da riforme che ne forniscano una pallida e non strutturale giustificazione.
Per esempio, per chiudere il gap di occupazione femminile occorre colmare i gap di servizi per la prima infanzia, che è vistosamente al di sotto rispetto alla media europea. La versione del Recovery Plan approvata dal Governo italiano il 12 gennaio dedica 21 righe alla questione, in cui sostanzialmente si dice che si aumenteranno i fondi ai capitoli di bilancio esistenti e “verranno emanati atti” per distribuirli.
Un piano serio avrebbe invece dovuto mappare, comune per comune, le aree con le principali carenze; individuare, di concerto con gli enti locali titolari delle competenze, il numero di nuove strutture da costruire in rapporto alla domanda potenziale, la tempistica e le risorse di parte corrente per il mantenimento futuro delle nuove strutture. Per arrivare ad una stima dell’impatto sull’aumento del tasso di attività femminile in quelle zone, eventualmente da incentivare ulteriormente con misure una-tantum di stimolo. Ma sul tema esistono solo poche righe, generiche e prive di qualsiasi piano industriale. Così stanno le cose anche per decine di altri progetti, in cui non solo è debole o assente alcun legame con la mancata crescita della produttività. Latitano anche dettagli e riforme.
Una delle principali cause del gap di produttività è il funzionamento della pubblica amministrazione. Sulla necessità di profonde riforme non vi è al momento traccia nel Recovery Plan. Servirebbe invece predisporre un piano industriale a tutto tondo: snellimento delle procedure di selezione, riforma delle procedure di valutazione e di progressione di carriera. Ci dovrebbe essere la previsione di meccanismi fluidi di scambio tra dirigenza pubblica e privata. Esiste la necessità di una riforma dei meccanismi premiali, soprattutto il ringiovanimento della forza lavoro – attualmente, la quota di dipendenti con più di 55 anni è il 45,4%, quasi il doppio della media Ue. Perciò, sarebbe pensabile sperimentare l’applicazione di alcuni recenti strumenti pensati per le imprese private, come il “contratto di espansione” che agevola l’esodo di forza lavoro non più riqualificabile in cambio di ristrutturazione e nuova formazione. A fronte di una radicale riforma del settore pubblico, la Commissione EU potrebbe accettare l’impiego di risorse del Next Generation, utili ad accompagnare il cambiamento strutturale.
Un’altra principale causa del gap di produttività è lo stato del sistema produttivo nel quale 20 per cento compete sui mercati mondiali. Gli altri soffrono, perché sono troppo piccoli e troppo poco specializzati. Il Governatore della Banca d’Italia ha recentemente affermato che se entrambi questi aspetti fossero in linea con i livelli tedeschi, la produttività media sarebbe addirittura superiore a quella della Germania. Serve allora un poderoso stimolo alle fusioni aziendali anche tramite incentivi fiscali temporanei e mirati e con modifiche ad-hoc al diritto societario al fine di accompagnare la transizione.
L’attuale versione del piano, invece, si limita a riconoscere l’esistenza del problema, e nulla più. E poi occorre e un accurato lavoro di costruzione delle filiere di offerta del futuro: idrogeno, mobilità sostenibile e industria della salute. Ma, per ciascuna di esse, con analisi chiare sulla quota di valore aggiunto che si intende generare entro il prossimo decennio, lo sviluppo dell’indotto, il legame tra investimento pubblico e generazione di investimento privato, necessità di sviluppo del sistema formativo. E tempistiche definite. Il piano attuale invece si limita a considerazioni molto vaghe e generiche.
L’Italia uscirà dal Covid con un rapporto debito/Pil vicino al 160per cento. In un mondo senza inflazione e con il tasso di crescita medio degli ultimi venti anni, lo sviluppo potrebbe finire in una situazione esplosiva. E con la fine, prima o poi, degli stimoli monetari della BCE per il mio paese si aprirebbero scenari molto preoccupanti. Per questo serve un governo all’altezza, che sia in grado di prendere ora le decisioni necessarie – a cominciare dal Recovery Plan – a incrementare in modo permanente il tasso di crescita strutturale dell’economia. Il Governo Conte non ha ritenuto di prendere davvero sul serio queste considerazioni, preferendo pensare che anche questa volta il paese se la possa cavare con un quieto “tirare a campare”. Per noi di “Italia Viva” questo non basta.
L’Italia è stata abituata dal racconto populista a incolpare altri dei propri problemi. In cima a questa lista di questi altri c’è spesso la Germania. Questo momento storico sarà stato davvero decisivo se, invece, noi italiani riusciremo a capire che per cercare il vero colpevole dei nostri problemi dobbiamo semplicemente cercare uno specchio. Ma la buona notizia è che quello stesso specchio rivela anche chi sono gli unici che hanno davvero in mano la possibilità, ora o mai più, di cambiare rotta.
L’economista Luigi Marattin è deputato, responsabile per l’economia del partito Italia Viva guidato da Matteo Renzi, e nella Camera dei Deputati è Presidente della Commissione Finanza.