di Luigi Marattin per Il Foglio
La Seconda Repubblica è stata un sostanziale fallimento per quanto concerne le esperienze di governo: col centrosinistra determinava il collasso dei governi, e col centrodestra il suo sostanziale immobilismo, mascherato dalla fu leadership eterna.
Se vogliamo avere una bussola per orientarci nel processo di scomposizione e ricomposizione del quadro politico avviato col Governo Draghi, dobbiamo iniziare col rispondere ad una domanda: è possibile in Italia avere un grande partito pienamente contendibile? In cui le diverse impostazioni culturali convivano tranquillamente ma in cui i membri della comunità politica decidano quale di essa debba prevalere fino al prossimo congresso, per almeno quattro anni? E’ una domanda rimasta senza risposta da un quarto di secolo, in entrambi i lati di quello che fu lo spettro politico esclusivo prima dell’affermazione del M5S. Dal “che fai mi cacci?” di Fini a Berlusconi al ventennale duello tra D’Alema e Veltroni; dall’effimero “con Bossi neanche più un caffè” ai logoramenti scientifici dei segretari Pd.
È molto tempo, dunque, che la composizione dell’offerta politica italiana post-Muro di Berlino ruota attorno stessa domanda: è possibile anche da noi, come accade soprattutto nelle democrazie anglosassoni, formare grandi partiti stabili e pienamente contendibili? Non ci può essere consapevolezza di quanto questo interrogativo sia cruciale senza una presa di coscienza (definitiva, possibilmente) dell’esistenza in entrambi gli schieramenti di due approcci culturalmente molto diversi tra loro.
Nel centrodestra, c’è chi guarda esplicitamente a Trump, Orban e Bolsonaro, e chi alla Merkel e all’Europa. C’è chi ha posizioni molto conservatrici su famiglia, diritti civili e immigrazione, e chi vota le leggi sulle unioni civili ed è a favore dell’integrazione. Chi è entusiasta dell’interventismo statale, e chi ha una derivazione autenticamente liberale. C’è chi considera l’euro irreversibile, e chi non perde occasione di ripetere che in fondo solo la morte lo è. C’è chi è filo-atlantista e chi fa finta di esserlo. Nel centro sinistra, c’è chi sogna la patrimoniale, e chi considera l’abbassamento della pressione fiscale la priorità di politica economica. C’è chi definisce il salvataggio di Alitalia una “sana politica industriale” e chi uno dei peggiori sprechi di denaro pubblico della storia. C’è chi teorizza di affrontare le crisi con blocco dei licenziamenti e sussidi, e chi con politiche attive. C’è chi sostiene che non ci sia un problema che non possa essere risolto riversandoci sopra soldi pubblici e aspettare che il fiore germogli (scuola, università, pubblica amministrazione) e chi pensa che i soldi possano servire solo se accoppiati a profonde riforme strutturali, e pazienza se qualche amico storico si arrabbia. C’è chi difende la dirigente di Rimini messa sotto accusa dai sindacati perché ha osato non dare 100 a tutti alle valutazioni individuali (ma si è permessa di differenziare partendo da 95) e chi la considera una nemica dei lavoratori.
Sono solo esempi, naturalmente. Ma la differenze culturali sono enormi, e lo sono sempre state. Si è tentato di coprirle a gran voce con richiami all’ “unità”, parola magica che fa sempre effetto, sotto la cui coltre sopravvivevano divergenze profonde su cosa davvero servisse all’Italia post-globalizzazione negli ultimi trent’anni. Divergenze che poi hanno mostrato tutto il loro dirompente effetto quando questi campi politici hanno vinto le elezioni.
Ed è questo il motivo per cui la Seconda Repubblica – con la storica eccezione dell’ingresso nella moneta unica – è stata un sostanziale fallimento per quanto concerne le esperienze di governo: col centrosinistra determinava il collasso dei governi, e col centrodestra il suo sostanziale immobilismo, mascherato dalla fu leadership eterna. Ed è a sua volta questo il motivo per cui oggi il reddito annuo prodotto in Italia è lo stesso di quando la Seconda Repubblica è iniziata.
Il dibattito politico post-meteorite (= Draghi) dovrebbe secondo me partire da qui, se vuole mirare a qualcosa di più che determinare gli assetti di potere dentro questo o quel partito, o la promozione di questo o quel leader o aspirante tale.
Chi è convinto che sia possibile avere due grandi partiti con – in ciascuno di essi – due orientamenti diversi ma in cui sia possibile sceglierne uno stabilmente per quattro anni, lavori per una ricomposizione (sostanzialmente) bipolare. Chi è convinto che questa si sia ormai dimostrata un’impresa impossibile (non nella comodità della fine teorizzazione, ma nella melma della pratica politica), lavori per la costruzione di aree politiche culturalmente omogenee, al di là dei vecchi campi.
Al lavoro, su. Che di tempo ce n’è, ma non così tanto.