Questo grafico (postato ieri su Twitter da un economista italiano – Fabio Ghironi – che da tempo lavora negli Stati Uniti) mostra l’andamento negli ultimi 60 anni della variabile che determina la crescita strutturale di un paese: si chiama “produttività totale dei fattori”, ma io la chiamo “quanto il funzionamento del paese mette capitale e lavoro nella condizione di produrre tanto e bene”.
Perché questa variabile è tanto importante?
Se in ogni paese prendi 10 unità di lavoro e 10 di capitale, non necessariamente producono dappertutto lo stesso ammontare: dipende dalla qualità – e non solo quantità – di lavoro e capitale e da come funzionano i mercati per il loro reperimento, la loro remunerazione e la loro tassazione; dipende dalla tecnologia con con cui si combinano; dipende da se il contesto nel quale operano (beni pubblici, pubblica amministrazione, leggi, regolamenti, diritti di proprietà) è favorevole o meno alla produzione.
Insomma, dipende da quanto ogni sistema-paese mette capitale e lavoro ( = i fattori produttivi) nelle condizioni di produrre tanto e bene.
L’andamento di questa variabile – mostrato nel grafico – dimostra quello che alcuni di noi dicono da diversi anni.
In Italia “qualcosa si rompe” negli Anni 70, quando il paese si mostra incapace di distribuire/investire i dividendi del “miracolo economico” e – soprattutto – incapace di adattarsi al nuovo contesto internazionale, che in quegli anni vide due shock petroliferi e la fine del regime dei cambi fissi deciso a Bretton Woods quando ancora la seconda guerra mondiale non era conclusa.
Da allora decidiamo di “mascherare” il problema strutturale (o se preferite, buttare polvere sotto il tappeto) cercando comunque di garantire al paese un tasso di crescita elevato nonostante il motore sottostante (la crescita della produttività) si fosse spento.
Negli Anni 70 lo facciamo con svalutazione della lira e inflazione (che arriva circa al 25%); negli Anni 80 col debito pubblico (che passa dal 60% al 120% del Pil); negli Anni 90 con i dividendi reputazionali dell’ingresso nella moneta unica europea, alla quale – come accadde con il Belgio – sorprendentemente accediamo pur non avendone pienamente i requisiti di finanza pubblica.
Per tre decenni quindi, ci rifiutiamo di affrontare il problema strutturale (cioè che la crescita della produttività stava rallentando o si era fermata), “comprando” crescita del Pil in altri modi, spesso dannosi nel lungo periodo.
Dall’inizio del nuovo millennio, accadono due cose:
1) il contesto internazionale cambia ancora, ma in modo molto più profondo rispetto al cambiamento degli Anni 70: arriva infatti la globalizzazione, e con essa la necessità di ripensare tutto: la dimensione dei mercati, la pressione concorrenziale, le specializzazioni produttive, la qualità delle istituzioni, la funzione del settore pubblico nell’economia. E l’Italia si dimostra incapace non solo di farlo, ma spesso addirittura di riconoscere la necessità di tale cambiamento (da qui i movimenti populisti – di destra e di sinistra – che negano o accusano la globalizzazione). Come risultato, come vedete dal grafico, la produttività comincia a diminuire.
2) dividendi reputazionali dell’ingresso nell’euro si erano esauriti, e non potevamo più usare senza limiti inflazione, svalutazione o debito, proprio perché eravamo entrati in un’unione monetaria le cui regole di funzionamento vietano ad ogni paese di utilizzare senza limiti quegli strumenti, perché danneggiano anche gli altri paesi membri.
Il combinato disposto di 1) e 2) ci fa guadagnare un poco invidiabile primato: quello di essere, dal 2000 in poi, uno dei paesi con un tasso di crescita medio più basso del pianeta Terra. Condizione poco invidiabile su cui, come se non bastasse, arrivano due “mazzate” micidiali comuni a tutto il mondo: la Crisi Finanziaria del 2008, e il Covid nel 2020.
Ecco perché i nostri problemi vengono da lontano. Nello stesso periodo rappresentato dal grafico, la produttività in tutti gli altri paesi e’ cresciuta (e a due cifre); da noi essa è al momento allo stesso livello in cui era mezzo secolo fa.
Le possibilità del nostro paese di “farcela” risiedono nella capacità delle classi dirigenti di comprendere la natura del problema e essere in grado di compiere le scelte necessarie per risolverlo.