Il dibattito pubblico italiano – specialmente in materia economica – funziona come una gigantesca “ruota della fortuna”: gira di continuo, e ogni tanto si ferma più o meno a caso su un argomento, che per qualche giorno domina giornali, tv, dibattiti.
In genere dopo meno di una settimana nessuno nel parla più, la ruota riprende a girare, in attesa di fermarsi su un altro argomento e di ricominciare lo stesso film.
Stavolta la ruota si è fermata su uno degli argomenti che ciclicamente tornano più spesso: il salario minimo.
E via alle curve ultrà: se sei a favore, sei di sinistra. Se sei contro, sei di destra.
E se per caso vuoi approfondire un po’ di più, per andare oltre lo slogan, sei un algido tecnico senza nessun contatto con la gente.
Al di là dei titoli di giornali, ad essere contrari all’imposizione di un salario minimo per legge (generalizzato) sono proprio i sindacati.
E hanno, a mio parere, pienamente ragione. Essi infatti difendono la possibilità per le parti sociali (rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro) di contrattare liberamente le condizioni contrattuali quando si discutono e si firmano i contratti collettivi nazionali.
Il problema sta nel fatto che molti contratti collettivi nazionali sono firmati da sindacati che non hanno alcuna rappresentatività presso i lavoratori. Ecco perché la prima cosa da fare, se si vuole seguire questa impostazione, è una legge sulla rappresentanza sindacale (di cui si discute da decenni), per assicurarsi che la libera contrattazione sociale avvenga tra soggetti pienamente rappresentativi.
Ci sono tuttavia lavoratori che non sono coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Per questi esiste comunque una tutela giurisdizionale (una sentenza della Corte costituzionale stabilisce che i parametri del contratto collettivo fungono comunque da riferimento), ma indubbiamente la fissazione per legge di un salario minimo – per questi settori – eviterebbe al lavoratore di doversi rivolgere ad un giudice, e sarebbe una tutela più veloce e più sicura.
Vi è poi una terza questione, sempre se vogliamo affrontare le cose seriamente e non per slogan: quanto potenziare ed estendere – sottraendo spazio alla contrattazione nazionale – la fase di “secondo livello”. Vale a dire le contrattazioni che avvengono a livello territoriale o di singola azienda, cioè la’ dove sono più efficacemente individuabili le frontiere dell’incontro tra capitale e lavoro, finalizzato a individuare le migliori condizioni per massimizzarne la combinazione.
Legge sulla rappresentanza sindacale, salario minimo nei settori non coperti e riforma della contrattazione incentivando il secondo livello.
Ecco un programma liberale e riformista per chi vuole rafforzare allo stesso tempo sia le tutele per i lavoratori che le condizioni di produttività e competitività per le imprese.
Ma niente paura: ancora per qualche giorno avremo il derby (salario minimo si o no?), poi passeremo ad un altro intrattenimento.