di Luigi Marattin, per Milano Finanza.
Quando si è occupata di casi relativi a investimenti esteri, a situazioni relative a grandi realtà aziendali o a servizi di pubblico interesse, la politica ha sempre mostrato – in ciascuno di questi casi – una forte tendenza a privilegiare l’utilizzo dello slogan demagogico rispetto al ragionamento di prospettiva. E tale tendenza è massimizzata, come dimostra l’intervento di Giorgia Meloni pubblicato su queste pagine il 1° dicembre, quando ci si occupa di temi che racchiudono tutti e tre gli elementi di cui sopra, come nel caso di Tim.
Prescindendo dall’ennesima analisi di tutti gli errori fatti dalla politica italiana nell’ultimo quarto di secolo e concentrandoci sul futuro – che però delle durature conseguenze di quegli errori è irrimediabilmente figlio – si possono avanzare alcune considerazioni, senza nessuna pretesa di esaustività o “sentenza inappellabile”, data tra l’altro l’estrema fluidità della situazione.
La prima è più che altro una banale constatazione. Davvero non si comprende come si possa urlare “oddio, arriva lo straniero!” parlando di una realtà aziendale il cui 65% del capitale è da tempo in mano estere, e in cui il principale azionista è francese. Al contrario, ci si dovrebbe invece rallegrare che a esprimere un interesse per Tim non sia stato uno dei pur numerosi e agguerriti fondi speculativi che si aggirano per il globo alla ricerca di valore effimero da estrarre a beneficio dei propri azionisti, ma inveceuno dei più solidi e affidabili fondi di investimenti del mondo. E se si ha davvero a cuore il futuro di Tim, bisognerebbe almeno esordire ogni ragionamento con la speranza – che si sa, almeno è gratis – che questa sia finalmente la volta buona in cui Tim trovi “un po’ di pace”, dopo un paio di decenni sempre turbolenti dal punto di vista della governance, che ne hanno compromesso la capacità di continuare in maniera stabile e duratura il processo di creazione di valore, in un settore assolutamente cruciale per lo sviluppo del paese.
La seconda considerazione riguarda l’assetto di mercato, la regolamentazione e la tutela della concorrenza. Una parola, quest’ultima, che la politica italiana pronuncia solo quando fa comodo, e soprattutto quando è sufficientemente lontana dal comparire in atti normativi. Non credo esista nessuno, al momento, in grado di stabilire quale sia l’assetto proprietario ottimale della rete. Una semplice occhiata alle esperienze internazionali ci dimostra non solo l’estrema varietà di soluzioni presenti, ma anche la loro estrema fragilità: ad esempio, le pochissime esperienze di rete interamente pubblica (come in Australia) stanno tornando sui propri passi, alla ricerca di nuovi modelli. Questo accade perché il problema è molto complesso, e intreccia vari piani: dall’innovazione digitale al minimo efficiente di scala, dalle problematiche di regolamentazione dell’accesso all’effettiva possibilità di concorrenza infrastrutturale (non essendo scontato, è bene ricordarlo, che la rete sia un monopolio naturale). Ragion per cui occorrerebbe procedere con più cautela, avendo in mente “soltanto” due precisi obiettivi: garantire parità di accesso a tutti gli operatori che vogliono – o vorranno in futuro – offrire servizi usando l’infrastruttura di rete, e affinare l’assetto della regolamentazione pubblica in materia. Come spesso accade, in Italia più che voli pindarici, dovremmo concentrarci nel fare bene poche cose. Potremmo persino stupirci del fatto che bastino.
La terza e ultima considerazione riguarda l’aspetto occupazionale. Anche il settore delle telecomunicazioni – come quello bancario – sta subendo l’unico lato negativo dell’innovazione tecnologica: essere diventato un settore un po’ meno labour-intensive rispetto all’epoca dei grandi monopoli pubblici. Che l’offerta di KKR vada in porto o meno, questo tema dovrà essere affrontato. La speranza è che lo si possa fare proteggendo in maniera sicura, rapida ed efficace i lavoratori, e non semplicemente i posti di lavoro.