Investimenti, ridisegno dei bonus, e segnale di prezzo. Ecco la strategia contro il rialzo del costo dell’energia.
Di Luigi Marattin e Carlo Stagnaro per Il Foglio
Lo scontro politico sul “contributo di solidarietà” a carico dei “ricchi” per mitigare gli incrementi dei prezzi dell’energia rischia di distrarre l’attenzione da un punto fondamentale: i rincari che stiamo osservando con ogni probabilità non sono una fiammata destinata a scomparire. Di conseguenza, le politiche per mitigarne gli effetti non possono più essere pensate come misure meramenteemergenziali, ma vanno inserite in un contesto più ampio e strutturale. È proprio per questo che l’idea di cavarsela imponendo un modesto (ma ennesimo) tributo sui redditi superiori ai 75 mila euro non solo non risolve in alcun modo la questione, ma rischia addirittura di esacerbarla facendone un tema identitario anziché una questione eminentemente pratica. E quando questo accade, la politica italiana di solito dà il peggio di sé.
Andiamo con ordine. L’aumento dei prezzi – che hanno raggiunto livelli record sia in valore assoluto, sia per la durata del fenomeno – nasce da uno squilibrio tra domanda e offerta: grazie a una ripresa più rapida del previsto esprimiamo una domanda dienergia maggiore di quanto credevamo; e a causa dei bassi investimenti passati (in particolare nel gas naturale) abbiamo meno offerta di quanta ce ne serve. A questo si aggiungono fattori più o meno casuali – quali la scarsa ventosità nel mare del Nord e alcuni disservizi sui gasdotti russi – che aggravano una situazione già tesa. Poiché il problema nasce dai fondamentali, è solo nei fondamentali che può trovare soluzione. Dal lato dell’offerta, servono maggiori investimenti sia nello sviluppo di nuova capacità produttiva di gas, sia in fonti alternative (dalle rinnovabili al nucleare): ma tutto ciò ha tempi lunghi. Dal lato della domanda, è necessario amplificare gli sforzi per promuovere l’efficienza energetica negli usi finali. Solo questo processo di aggiustamento – aumento dell’offerta, riduzione dei consumi – può ricondurre i prezzi a livelli “normali”.
Cosa può fare la politica? Finora, il governo si è giustamente concentrato sul tentativo di attenuare l’impatto immediato, stanziando 1,2 miliardi di euro per il terzo trimestre 2021, 3,5 miliardi per quello successivo e altri 2,8 miliardi per il prossimo. In tutto, 7,5 miliardi in nove mesi – praticamente tanto quanto la riforma fiscale o il reddito di cittadinanza – con l’obiettivo di smorzare gli aumenti per le famiglie e le piccole e medie imprese. Grazie a questi interventi, le bollette elettriche sono cresciute “solo” del 9,9 per cento a luglio e del 29,8 per cento a ottobre(anziché del 20 per cento e del 45 per cento, rispettivamente). Qualcosa di simile accadrà all’inizio dell’anno: ma si tratta di misure tampone, che spostano provvisoriamente sulla fiscalità generale parte degli oneri tariffari, decorse le quali tutto tornerà come prima.
Alla luce di questi numeri, è davvero surreale che l’intero dibattito politico si sia concentrato su un contributo di solidarietà che avrebbe spostato appena 248 milioni di euro (il 3,2 per cento di quanto già stanziato) dando, in aggiunta, un pessimo messaggio politico al ceto medio, che già ora sopporta un elevatissimo carico fiscale. Oltre tutto, sarebbe anche bene evitare di prenderci in giro. La storia del “contributo di solidarietà” non nasce dalla necessità di incrementare il sostegno al caro-bollette (che come abbiamo visto sarebbe cambiato di poco) e, come conseguenza, dalla necessità di reperire le relativa risorse chiedendo un sacrificio ai redditi formalmente più alti. E’ vero esattamente il contrario: le richieste di (parte dei) sindacati riguardavano il congelamento della riduzione fiscale per quei redditi (vista come un ingiustificato “regalo ai ricchi”). E poiché si rendeva quindi disponibile una piccola somma, ecco l’idea di destinarla al caro-bollette, che avrebbe rafforzato la narrazione à-la-Robin Hood di cui (stra)parlava qualche sindacalista nei giorni precedenti.
Ma c’è un’altra domanda: ha davvero senso finanziare sconti tariffari per la totalità dei consumatori, e poi, sempre con l’arco e la freccia di Robin Hood, tassare quelli più benestanti (circa un milione di contribuenti) per finanziare una piccola parte dello sgravio? Ormai è evidente che il problema è strutturale, quindi la soluzione non può continuare a ricalcare lo schema seguito sulla scorta dell’emergenza ormai diversi mesi fa. Al contrario, è giunta l’ora di ripensare i meccanismi di tutela dei redditi bassi, limitando le distorsioni degli interventi in atto.
Oggi, infatti, la protezione delle famiglie a basso reddito viene da due strumenti – il bonus elettrico e il bonus gas – a cui ha diritto chiunque abbia un reddito Isee inferiore a 8.265 euro (aumentato per le famiglie numerose). I due bonus non si parlano tra di loro e lasciano scoperti tutti quelli che non usano il gas come combustibile per il riscaldamento (inclusi quelli che vivono in zone non metanizzate e utilizzano pellet o gpl). Inoltre, i bonus si applicano come sconti in bolletta, eliminando il segnale di prezzo. Un tentativo di riforma ebbe inizio nel 2017, ma poi non se ne fece nulla: successivamente si è intervenuti solo per facilitare la fruizione del beneficio, ma senza metterne in discussione il disegno.
Sarebbe, invece, il momento di immaginarne un ridisegno radicale: anzitutto eliminando la distinzione tra elettricità e gas e riconoscendo l’agevolazione a tutti coloro che si trovano in condizioni di povertà energetica. Secondariamente, introducendo un indicatore di tale fenomeno che sia più raffinato dell’Isee, e che tenga conto delle diverse zone climatiche che compongono il paese e che rendono radicalmente diversi i problemi e i costi di famiglie che, pur avendo situazioni patrimoniali e reddituali analoghe, vivono in aree climaticamente molto diverse. Sotto questo profilo, il governo dovrebbe ascoltare le indicazioni dell’Osservatorio italiano sulla povertà energetica, e correggere il disegno dei bonus: basti dire che, secondo l’indagine Istat sulla spesa delle famiglie, ne fruisce meno del 10 per cento delle famiglie in povertà energetica. Infine, trasformando completamente la natura del bonus da sconto tariffario a trasferimento cash: l’obiettivo dovrebbe essere quello di aiutare chi si trova in condizioni di disagio fisico o economico, non cancellare i segnali di prezzo e con essi gli incentivi all’efficienza energetica.
Naturalmente, la situazione attuale può richiedere un’estensione provvisoria del bonus (e poi un suo phase-out graduale). Ma anche solo limitando la fruizione alla metà delle famiglie, la spesa corrispondente sarebbe pari alla metà di quanto stanziato: si risparmierebbero miliardi, non milioni, senza con questo inventarsi manovre fiscali pasticciate e punitive.