Gli anniversari sono tutti così, pieni di retorica e di ampollosità. Ma questo Paese non ha ancora fatto pienamente i conti con i fatti di 50 e 40 anni fa (la strategia della tensione, il delitto Moro, la strage di Bologna) figuriamoci con quelli di 30.
In attesa che cio avvenga (se mai avverrà), il mio personale pensiero su Tangentopoli è composto semplicemente da quattro pillole, senza alcuna pretesa di esaustivita’:
1) la corruzione del sistema politico (che l’Italia scopri’ 30 anni fa, con l’arresto di Mario Chiesa) era cosa nota da decenni. Se il “bubbone” scoppia nel 1992 e non prima è unicamente perché 3 anni prima – con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda – erano venute meno le ragioni che richiedevano l’immutabilità del quadro politico italiano, a tutti i costi.
2) la corruzione di (parte del) sistema politico e imprenditoriale non è sparita. E non credo abbia alcun legame con la presenza o meno di un sistema di finanziamento pubblico dei partiti.
3) le inchieste di Tangentopoli erano giuste e necessarie. Ma con esse nascono due distorsioni gigantesche che ci condizionano ancor oggi:
– ci si rese conto che l’azione della magistratura era una potentissima arma di condizionamento dell’opinione pubblica, e come tale poteva essere utilizzata per perseguire scopi di natura diversa da quelli che la Costituzione assegna alla magistratura.
– nasce il populismo dell’era repubblicana (il paese aveva già vissuto un’epoca populista, in passato), tenuto a battesimo dalle monetine del Raphael.
4) da allora, il rapporto tra politica e magistratura non è stato più lo stesso (Matteo Renzi l’ha efficacemente definita “la guerra dei trent’anni”). E come quasi tutte le cose in questo paese – dalle tasse al Superbonus, dal “fine vita” ad Alitalia – è diventato un derby tra tifoserie con la bava alla bocca. In cui ti senti un po’ spaesato se pensi che, semplicemente, la magistratura inquirente abbia diritto di perseguire i reati la’ dove ritiene di ravvisarli, ma che l’unica cosa che conti sia il giudizio della magistratura giudicante, che deve avvenire in tempi rapidi e con tutte le garanzie (legali e “mediatiche”) che si addicono ad una società liberale, inclusa la separazione delle funzioni e delle carriere tra le due magistrature. E che nessun funzionario pubblico debba essere esente da valutazioni sul proprio operato professionale.