di Luigi Marattin per Il Foglio
Una tabella dell’Ocse sull’andamento del salario medio nelle economie occidentali, quello che indica la dinamica della produttività del lavoro e il vero colpevole dei problemi di questo paese.
Nei giorni scorsi su Twitter è comparsa una tabella dell’Ocse risalente a circa sei mesi fa, che mostra l’andamento del salario medio negli ultimi trent’anni nelle economie occidentali. L’Italia occupa tristemente l’ultima posizione, con un desolante -2,90 per cento: vale a dire, tra il 1990 e il 2020 il salario medio (misurato a prezzi costanti e in parità di potere d’acquisto) è addirittura leggermente diminuito. A fronte di aumenti, anche a tre cifre, di altre economie occidentali. Ho pensato di contribuire al dibattito postando, accanto a questa tabella, un grafico che indicava la dinamica della produttività del lavoro nel solo settore privato in un arco temporale simile ma non perfettamente coincidente: dal 1995 al 2020.
A sinistra la foto che tutti mostrano: i salari in Italia sono praticamente fermi da 30 anni. A destra quella che in pochi mostrano: la produttività del lavoro nello stesso periodo. Persino più del peso fiscale, eccola la ragione per cui i salari non crescono. pic.twitter.com/APeaiSYS89
— Luigi Marattin (@marattin) May 31, 2022
Alcuni si sono offesi, e hanno fatto sostanzialmente due critiche:
I) Il grafico mostra una crescita della produttività di circa 12 punti tra il 1995 e il 2020. Il salario medio invece – tra il 1990 e il 2020 – scende del 2,90 per cento. Quindi vi è una incongruenza che invaliderebbe l’intero argomento.
II) Il mio argomento è in realtà sbagliato perché equivale ad affermare che i salari sono bassi perché i “lavoratori sono pigri”.
Non pensavo lo fosse, ma probabilmente è utile rispondere a entrambe le questioni.
Il gap tra crescita dei salari e produttività è in realtà più basso, perché se facciamo un confronto più omogeneo sia dal punto di vista della misurazione (guardando in entrambi i casi lo stesso arco temporale, magari escludendo l’anno Covid) sia dell’aggregato di riferimento (includendo anche nel grafico della produttività il settore pubblico, come nel caso dei salari), il gap non è più di quasi 15 punti ma più che dimezzato. Ma il punto non è certo questo. E’ sbagliato pretendere un rapporto uno-a-uno tra salario e produttività, semplicemente perché il legame è tra quest’ultima e il costo del lavoro. Non il salario. E poiché la differenza è data da un aspetto su cui siamo ai primi posti nel mondo occidentale (il peso fiscale e contributivo), non dovremmo essere particolarmente sorpresi della non perfetta coincidenza tra quelle due cifre. Tanto più su un orizzonte cumulato trentennale.
Pensare poi che produttività del lavoro e pigrizia dei lavoratori siano sinonimi è semplicemente frutto di una particolarmente pronunciata ignoranza. La produttività di un fattore è determinata da ciò che gli consente di massimizzare il suo apporto al processo produttivo: certamente la qualità del fattore stesso e i meccanismi per la sua formazione, ma anche tutto il contesto entro cui si esplica il suo utilizzo: la dotazione e la qualità dell’altro fattore produttivo (in questo caso il capitale), la fornitura e l’efficienza di beni e servizi pubblici, il funzionamento del suo mercato e la sua efficiente allocazione tra i settori produttivi, la dimensione media d’impresa, la capacità di innovazione, l’organizzazione aziendale e la qualità di chi organizza la produzione, la stabilità e l’efficienza delle leggi che accompagnano la produzione. E tante altre cose ancora. E’ una lista doppiamente nota: non solo quella dei problemi strutturali che questa economia – non a caso – ha da una trentina d’anni, ma è anche quella su cui dovrebbero agire le riforme del Pnrr. E su cui il governo Draghi ha puntato tutto.
Escludendo gli ignoranti, qualche collega economista la cui (già dubbia) capacità di ragionamento è offuscata dalla frustrazione e i nostalgici del “salario variabile indipendente” come si affermava negli anni 70, temo sia proprio questo il punto che anima chi reagisce male ogni volta che sente ricordare che se i salari – e quindi ancor più il costo del lavoro – crescessero più velocemente della produttività, ben presto non ci sarebbero più imprese disposte a impiegare lavoro. Costoro, semplicemente, non vogliono sentirsi ricordare che per trovare il colpevole dei problemi di questo paese non basta individuare il più antipatico nemico di turno (la globalizzazione, l’euro, la Merkel o persino Putin). Basta trovare uno specchio ben pulito.