L’intervista di Affaritaliani.it a Luigi Marattin, deputato di Italia Viva e già consigliere economico del governo Renzi
Sarà per il clamore, acustico e mediatico, generato dai clacson dei trattori o da goffi balletti nel festival canoro per antonomasia, è passata piuttosto sottotraccia la notizia dell’approvazione alla Camera del ddl “Capitali” (il disegno di legge con il quale il Governo intende restituire competitività e attrattività internazionale al mercato dei capitali italiano), la cui entrata in vigore diventa cosa praticamente fatta (visto che adesso il Senato dovrà discutere soltanto un singolo emendamento alla bozza, apportato dai colleghi deputati).
“Maiora premunt” dicevano i latini, ma il testo di legge contiene alcune novità dalle conseguenze di portata potenzialmente sistemica per l’economia del Paese. Una su tutte: l’aumento da 8 a 16 miliardi di euro del limite di attivo per le banche popolari, ovverosia della soglia oltre la quale tali banche sono obbligate a costituirsi in società per azioni. Non si tratta di questione di mera forma (giuridica), ma di sostanza: le regole di governance delle banche cooperative (tra le quali rientrano le popolari) sono parecchio diverse da quelle che regolano la gestione delle banche costituite in s.p.a e sono le regole di governance le prime a dettare il funzionamento di un sistema. Nelle cooperative, ad esempio, ogni socio ha diritto a un voto in assemblea, a prescindere dalla quota di capitale detenuta (il cosiddetto voto capitario).
Nelle s.p.a., invece, i diritti di voto spettanti al singolo socio dipendono, in generale, dalla quota di capitale detenuta (voto proporzionale). Eppure, l’unica voce politica di un certo peso che sembra (pre)occuparsi della novità è quella dell’on. Luigi Marattin, deputato di Italia Viva e già consigliere economico del governo Renzi. Fu proprio il governo Renzi, nel 2016, a introdurre il limite di 8 miliardi nell’ambito di una più generale riforma del credito cooperativo, in risposta alle crisi bancarie che tanto sconquasso avevano provocato l’anno prima. Perciò, Affaritaliani.it ha chiesto all’onorevole Marattin di dettagliare la sua opinione.
Onorevole Marattin, lei nel 2016 era consigliere economico del governo che introdusse il limite degli 8 miliardi all’attivo delle banche popolari. Quali erano le ragioni di quella scelta? Sono attuali ancora oggi?
Pensammo che l’assetto del voto capitario fosse appropriato in banche di prossimità, più piccole (su cui intervenimmo comunque con la riforma delle banche di credito cooperativo, ma senza intaccarne la natura). Ma in banche di dimensioni maggiori il voto capitario corre il serio rischio di divenire semplicemente uno strumento attraverso cui gruppi di potere locali – ben sedimentati, se non incrostati – mantengono il controllo sulla banca e ne impediscono il realizzarsi di condizioni di contendibilità e quindi di competitività. Impedendo in ultima analisi il miglioramento del servizio offerto e mettendo a rischio, come in quegli anni non a caso accadde, la stabilità finanziaria in alcuni istituti.
Dopo molte resistenze – in particolare da parte di due istituti – tutte le banche popolari con attivi superiore agli otto miliardi di euro hanno completato la trasformazione in s.p.a. E la riforma non ha fallito il suo obiettivo di promuovere contendibilità e competitività, visto che da essa ha avuto origine la fusione tra BPM e Banco Popolare con la nascita del Terzo Polo. Bancario, naturalmente.
Qualcuno, dell’attuale governo o dell’attuale maggioranza, le ha spiegato perché si è deciso di raddoppiare il limite?
No. Eppure qualche domanda in giro l’ho fatta, e presso varie istituzioni, ma senza ottenere risposte che mi facessero capire una reale esigenza. Nel mio intervento alla Camera, lo scorso 6 febbraio, ho fatto presente due pericoli: uno spero residuale, ma l’altro reale. Il primo riguarda la possibilità (che ripeto spero essere solo teorica) che qualcuna delle dieci banche, magari proprio quelle più riottose, possa tornare indietro. Ma l’altro pericolo è molto reale: che dall’auspicato, e in certi casi necessario, processo di fusione di banche popolari di piccole o medie dimensioni possano nascere istituti che, a questo punto, pur avendo un attivo patrimoniale di 16 miliardi possono benissimo mantenere la logica del voto capitario, con tutte le potenziali inefficienze di cui parlavo prima.
Ci sono studi secondo i quali le fusioni tra banche cooperative non ne aumentano l’efficienza in misura significativa, se non dopo la quarta fusione.
Non ho letto questi studi ma suppongo dipenda dalle dimensioni delle banche che si fondono.
Soffermiamoci sulla regola del voto capitario. Anche nel suo intervento alla Camera, lei l’ha definita inadeguata per le realtà di grosse dimensioni. Vogliamo entrare nel dettaglio?
Col voto capitario, una “coalizione regressiva” (cioè un gruppo di potere locale che controlla la banca ma la mantiene inefficiente) può conservarne il potere potenzialmente per sempre; o quantomeno, fino a quando non la porta a schiantarsi. Quella banca invece potrebbe essere gestita da altri in maniera migliore, portando benefici sia ai risparmiatori che alle imprese. Ma col voto capitario è praticamente impossibile – o quanto meno estremamente improbabile – conquistare il controllo dell’istituto, non importa quanti capitali si sia disposti a mettere sul piatto.
Ovviamente, non sto dicendo che tutte le banche popolari sono gestite da coalizioni regressive, né che tutti i potenziali investitori siano migliori gestori. Ma quel che è certo è che laddove il rischio di inefficienza esista (o di non-sfruttamento di tutte le potenzialità) è certamente più grave nelle banche di dimensioni maggiori. Che infatti, con la riforma, obbligammo ad abbandonare il voto capitario e ad assumere una forma giuridica, quella di s.p.a., più adatta alle realtà di mercato.
Dunque, come ha detto anche il 6 febbraio, la regola del voto capitario disincentiva gli investimenti nel capitale delle banche cooperative, mentre quella del voto proporzionale alle azioni possedute rende le banche contendibili sul mercato. Eppure, per il Governo, l’obiettivo principale del “ddl capitali” sarebbe proprio quello di attrarre nuovi investitori, anche stranieri, nel mercato italiano.
E infatti andrebbe chiesto al Governo come fanno a stare insieme questi due obiettivi. Io l’ho fatto, ma non ho ricevuto risposta.
Potrei obiettare che le grandi banche cooperative (operanti con il sistema del voto capitario), con attivo superiore agli 8 miliardi di euro sono una realtà diffusa in tutti i principali paesi europei. In Francia, nel 2019, su 96 banche commerciali con attivo superiore agli 8 miliardi e registrate nei database di BankFocus, 44 erano cooperative; in Germania, erano 9 su 69; in Austria 5 su 20; in Spagna 3 su 22. Non sono numeri da poco.
Sono un accanito fan del confronto con altre realtà per cogliere best practices, ma a condizione che si tenga adeguato conto delle specificità italiane. Per fare un esempio, in nessun paese del mondo occidentale la prima casa è esente sia da tassazione sul reddito che da quella patrimoniale: sarebbe fin troppo facile quindi decidere che allora questa anomalia va sanata. Ci si dimenticherebbe però di sottolineare che è difficile all’estero trovare casi in cui la concentrazione della ricchezza sull’abitazione di proprietà è così diffusa, soprattutto tra le fasce più deboli. Oppure che la pressione fiscale complessiva in Italia è ai primi posti nell’Unione Europea.
Tornando a noi, in Italia il settore bancario è sempre stato molto delicato. Pensiamo al passaggio storico, una trentina di anni fa, quando si passò da enti di diritto pubblico a società per azioni e il ruolo particolare svolto dalle fondazioni territoriali locali, che in alcune occasioni sono diventati “fortezze” di gruppi di potere restii alla concorrenza e alla contendibilità. O la natura e la storia delle tante, tantissime banche popolari (alcune delle quali però sono nel tempo cresciute talmente tanto da divenire veri e propri protagonisti del mercato). Insomma, da noi era necessario intervenire per rompere certe incrostazioni e certe pulsioni anti-mercato, da cui certamente altri paesi non sono immuni ma che da noi arrecavano particolari danni. Se non altro in termini di opportunità mancate, ecco.
Dati alla mano, molti studiosi (italiani e internazionali) difendono l’utilità delle banche cooperative, anche con attivi superiori agli 8 miliardi, per il sistema bancario ed economico di un paese sviluppato. Le banche cooperative – si dice – offrono maggior sostegno all’economia reale, sono più orientate a soddisfare gli interessi delle comunità locali, dei correntisti e dei soggetti finanziati piuttosto che quelli degli azionisti, riducono il rischio sistemico, adottano politiche più prudenti nella copertura dei prestiti non performanti, sono più solide perché hanno un rapporto migliore tra patrimonio di vigilanza e crediti concessi. Cosa mi risponderebbe se le dicessi che le s.p.a. fanno l’interesse dei grandi investitori, le grandi popolari quello dei cittadini?
Per fortuna che ha usato il congiuntivo, descrivendo quindi una situazione ipotetica! Perché in caso le risponderei che è uno slogan populista, niente di più. La forma giuridica non determina a priori le performance di un’impresa. Facendo, anche qui, incursioni su altri terreni, sarebbe come dire che un’azienda di diritto pubblico è necessariamente migliore nel gestire un servizio pubblico locale rispetto ad un’azienda di diritto privato.
Invece, ovviamente, contano i risultati: quanti investimenti riesce a fare e che struttura dei costi ha, in modo da permettere di dare al cittadino il servizio migliore alla tariffa più bassa. Tornando alle banche, sarebbe una sciocchezza dire che a priori una s.p.a. è meglio di una popolare o viceversa. Ma qualora una popolare performi male (o in maniera inefficiente) è un fatto che l’operare del meccanismo di mercato (cioè l’arrivo di investitori in grado di gestirla meglio) è precluso. Cosa che non accade invece, per definizione, in una s.p.a.
D: Teme che l’innalzamento del limite di attivo delle popolari a 16 miliardi renda possibili scenari simili alla crisi del 2015, o ancora più gravi?
No, per fortuna (e in parte grazie all’intervento pubblico durante i governi Renzi e Gentiloni, che tramite il sistema delle GACS, le garanzie sulla rilevazione delle sofferenze, rese possibile l’avvio del mercato degli NPL) il nostro sistema bancario oggi è molto più solido rispetto al 2015. Il rischio però è quello che dicevo prima: che eventuali fusioni tra banche popolari creino istituti di dimensioni ragguardevoli (fino, appunto, a 16 miliardi di attivo) che tuttavia potranno continuare a essere protetti da un sistema di governance non adatto.
In Italia sono collassate fior fiore di banche costituite in società per azioni: Antonveneta, MPS, Italease, Carige. Non è che il problema è un po’ di tutti?
Di nuovo: la forma giuridica, di per sé, non determina a priori il fallimento o il successo di una banca. L’esperimento – teorico o soprattutto empirico – di policy da fare è tutt’altro. Prendiamo due banche gestite ugualmente male. Una è una popolare, una è una s.p.a. In caso ci siano capitali privati pronti a intervenire, evitando così – tra l’altro – un possibile fallimento e un conseguente più che probabile salvataggio pubblico, ci sono le stesse probabilità che tale intervento sia prima di tutto possibile e, poi, riuscito?