“Fisco, automotive, trasferimenti ai comuni, canone Rai, collegi sindacali: norme da rivedere. Per il resto ok. Problema? Lo sarà anche per la maggioranza? Perché contraddice tutto ciò che ha detto il centro destra in campagna delettorale”
Il mio articolo su Il Foglio dell’11 novembre 2024
Durante la sua audizione dinnanzi alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, giovedì 7 novembre, ho detto al ministro Giorgetti che se governo e maggioranza acconsentissero ad apportare sei puntuali modifiche, sarei pronto a votare a favore del disegno di legge di bilancio 2025.
Le sei modifiche riguardano: l’abolizione dell’estensione della “digital tax” alle piccole e medie imprese; l’abolizione dell’incremento della tassazione dal 26% al 42% sulle criptovalute; la cancellazione dell’incremento del canone Rai in assenza di una massiccia privatizzazione delle reti; l’abolizione della norma sovietica sulla nomina di un revisore del Mef nei collegi sindacali delle aziende private che ricevano un contributo pubblico di almeno 100.000 euro; il ripristino dei fondi per l’automotive a supporto della riduzione del costo dell’energia, degli ammortizzatori sociali e dell’indotto; e infine, la modifica della norma sui trasferimenti ai comuni (che, così com’è, ostacola il superamento del criterio della spesa storica e la messa a regime del criterio dei fabbisogni standard).
Si tratta di sei modifiche che, se accettate, eliminerebbero veri e propri grossolani errori commessi dal governo nella predisposizione della manovra, e la renderebbero del tutto idonea e adeguata dati i vincoli rappresentati dalla situazione reale e dalle nuove regole fiscali europee.
Ma la questione non è se il sottoscritto – semplice deputato del Gruppo Misto – voti o meno la manovra, che non interessa probabilmente a nessuno. La questione è come fa la maggioranza stessa a votarla.
Il motivo, infatti, per cui la legge di bilancio – al netto delle sei modifiche sopra ricordate – incontra la mia sostanziale approvazione è che contraddice radicalmente tutto ciò che il centrodestra ha dichiarato in campagna elettorale e su cui ha costruito il proprio consenso quando era all’opposizione.
Tutti i partiti dell’attuale maggioranza hanno passato un decennio abbondante a promettere che, quando sarebbero andati al governo, sarebbe finalmente stato possibile anticipare l’età di pensionamento (Lega e Fratelli d’Italia) e alzare le pensioni minime (Forza Italia).
Il comma 1 dell’articolo 23 del disegno di legge di bilancio, invece, ha un titolo piuttosto chiaro: “Incentivo per la prosecuzione dell’attività lavorativa dopo il conseguimento dei requisiti per il trattamento pensionistico anticipato”. In poche parole, se raggiungi i requisiti di anzianità contributiva (i famosi 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne), che per anni sono stati nel mirino della propaganda salviniana, il governo ti dice: “amico mio, se invece di sfruttare il diritto ad andare in pensione decidi di rimanere un po’ al lavoro, faccio in modo che tu possa guadagnare di più: il 9,19% di aliquota contributiva, che oggi versi all’Inps, te lo lascio tutto in busta paga, esentandolo persino dalla tassazione”.
E come se non bastasse a demolire la pluriennale narrazione del segretario della Lega, il vice-segretario della Lega (ministro dell’Economia pro-tempore) nei commi successivi si spinge persino più in là: se sei un dipendente pubblico, e raggiungi il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia (i 67 anni dell’odiata riforma Fornero), ti offro una scelta: puoi rimanere a lavorare fino a 70 anni. Quanto sono lontani i tempi del “pre-pensioniamo un anziano per avere 3 giovani assunti”!
L’articolo 25 invece fornisce una risposta ad anni di propaganda di Forza Italia (“le porteremo a 1.000 euro al mese”, si diceva fin dai tempi di Berlusconi) sulle pensioni minime: l’articolo 25 della legge di bilancio, correttamente per un paese che ha il rapporto tra spesa previdenziale e Pil più alto del mondo, si limita a garantire che non diminuiscano in valore reale, prevedendo un aumento nominale di circa 3 euro al mese.
Ma passiamo oltre. Ricordate la dura crociata del centrodestra contro i POS, lo scontrino elettronico e contro la tracciabilità elettronica dei pagamenti? Beh, potete scordarvela.
L’articolo 9 rafforza, e rende finalmente totale, l’interazione tra pagamenti elettronici e certificazioni fiscali, alzando le sanzioni per chi dovesse eludere la regola o tardare ad adeguarsi. Stiamo parlando dello “scontrino elettronico” (introdotto, sotto gli insulti del centrodestra, una decina d’anni fa dal governo Renzi): grazie a questa norma, il processo di trasmissione all’agenzia delle entrate dei corrispettivi ricevuti tramite pagamento elettronico sarà ora immediato e senza possibilità di elusione.
Il successivo articolo, il 10, è persino meglio: dice ai lavoratori dipendenti e autonomi che d’ora in poi i rimborsi per spese di vitto, alloggio e viaggio quando vai in trasferta, o le spese alberghiere o di somministrazione di alimenti e bevande, sono deducibili solo se pagate con metodi tracciabili. Addio per sempre quindi ai rimborsi gonfiati.
Ma non è finita. Chi non ricorda gli strali del centrodestra contro l’ideologia verde della transizione ecologica nel settore della auto? Chi può dimenticare gli strali, ai limiti del negazionismo climatico, contro chi pretendeva di dirci quale automobile dovevamo comprare?
Diamo un’occhiata all’articolo 7, che parla di un fenomeno molto diffuso: la concessione in uso ai lavoratori di auto aziendali per uso promiscuo. Finora la tassazione di questo strumento era basata sull’ammontare di anidride carbonica emessa: più CO2 emetti, più ti tasso.
Il governo di centrodestra invece – quello delle crociate contro le auto elettriche – cambia completamente il sistema e stabilisce la tassazione (sia in capo al dipendente che al datore di lavoro) unicamente sulla tipologia di alimentazione del veicolo: se si tratta di auto elettrica o plug-in, te la cavi. Ma se per caso parliamo di un’auto a diesel o benzina, la tassazione aumenta e neanche di poco.
Potrei continuare con esempi puntuali. Ad esempio potrei ricordare tutto quello che il centrodestra ha vomitato per anni contro le modalità di erogazione del “bonus 80 euro”, che invece di essere una riforma fiscale organica era semplicemente un’erogazione monetaria in busta paga al lavoratore dipendente. Basta sfogliare le prime pagine della legge di bilancio, all’articolo 2, per trovare una disposizione che replica la stessa identica modalità: un bonus diretto per i lavoratori dipendenti con reddito inferiore ai 20.000 euro. Non certo per abbassare le tasse rispetto allo scorso anno, intendiamoci (perché anche i sogni di riduzioni fiscali plurimiliardari sono stati del tutto accantonati), ma per sostituire la riduzione del cuneo contributivo con un provvedimento, invece, di natura fiscale. Proprio come aveva suggerito di fare la Banca d’Italia. Che non è più, evidentemente, un covo di burocrati e sacerdoti dell’austerità ma un’istituzione che elargisce consigli preziosi da recepire integralmente.
Ma più che proseguire con le norme puntuali che contraddicono integralmente le promesse elettorali, preferisco soffermarmi sul concetto fondamentale.
Il centrodestra, per anni, ha predicato l’inutilità di ogni azione volta a tenere sotto controllo il debito e la spesa pubblica. Per anni gli alfieri del pensiero economico sovranista (i leghisti Borghi e Bagnai, l’attuale potentissimo sottosegretario Fazzolari) avevano riempito pagine di giornali, profili social, interviste, comizi e palchi vari con la promessa che – una volta giunti al governo – finalmente questi sadici mantra dell’austerità, della tecnocrazia e del liberismo selvaggio sarebbero stati definitivamente accantonati. E finalmente l’Italia sarebbe stata libera di spendere e spandere a più non posso.
Per la prima volta nella recente storia italiana, a memora d’uomo quantomeno, il governo porta in approvazione una legge di bilancio che riduce in termini reali il complesso delle uscite pubblichecorrenti per l’anno successivo. Le stesse uscite pubbliche che negli ultimi decenni non solo sono sempre cresciute, ma pure ad un multiplo rispetto alla crescita del reddito reale.
E come se non bastasse, il governo Meloni vuole essere più austero della Commissione Europea. Che nel luglio scorso, consegnando all’Italia la traiettoria di spesa primaria netta che secondo loro sarebbe stata adeguata al nuovo Patto di Stabilità e Crescita e in generale alle necessità dell’Italia di tenere sotto controllo i conti pubblici. Ebbene, in questa legge di bilancio il governo Meloni dice “ma no, secondo me tu, Unione Europea, sei un po’ troppo scialacquona tu. Sai cosa ti dico? Prevederò una traiettoria di controllo della spesa più severa di quella che suggerisci tu”. E così ha fatto, mandando su tutte le furie il povero Borghi.
Quest’articolo, e i dati di fatto in esso contenuti, faranno contento il Direttore Cerasa. Che si convincerà quindi ancor di più di essere nel giusto quando, periodicamente, esprime soddisfazione del fatto che questa maggioranza sta rinnegando una ad una le colossali scemenze con cui ha conquistato il consenso degli italiani.
Al contrario del Direttore, io non sono contento per niente. O meglio, lo sono nel breve periodo, tanto d’aver aperto questa mia riflessione dichiarando che – condizionatamente alla modifica dei sei aspetti di cui sopra – questa legge di bilancio sono addirittura disposto a votarla.
Ma questa mania di carpire il consenso degli italiani promettendo ciò che si vuole (o meglio, ciò che gli elettori vogliono sentirsi dire) per poi arrivare al governo ed essere costretti a fare semplicemente ciò che si può, se da un lato nel breve periodo sta salvando il Paese da pericolosi baratri, nel medio-lungo periodo sta distruggendo il dibattito politico e la partecipazione politica. Sta riducendo il confronto politico ad una sfida tra curve ultrà, ad una penosa recita di seconda mano, ad una patetica gara a chi è più bravo a trattare gli italiani come bambini. Uno spettacolo di fronte a cui ben dieci milioni di italiani, nel corso degli ultimi trent’anni, si sono chiamati fuori, ingrossando le fila dell’astensionismo.
Ma mentre facciamo queste riflessioni, sperando di farle davvero, limitiamoci a parafrase il compianto John Kennedy: “Non chiedetevi perché qualcuno dell’opposizione vuole votare questa legge di bilancio. Chiedetevi, invece, come fa a volerla votare la maggioranza”.