Breve post sulla più recente polemica, che tra qualche giorno sparirà senza aver lasciato traccia. Come sempre accade nel Paese – nel mondo – più innamorato delle chiacchiere.
Il Ministro dell’Istruzione Valditara ha proposto di aumentare gli stipendi degli insegnanti ma solo al Nord, perché la vita costa di più.
È stato istantaneamente sommerso dall’ondata di dichiarazioni che dal 1969 (anno di abolizione delle “gabbie salariali”) la maggior parte dei politici italiani (di destra e di sinistra su questo – come su molto altro – non vi è alcuna differenza) ha pronte nel cassetto ogni singola volta che qualcuno si azzarda a mettere l’accento sul salario reale invece che su quello nominale.
A me l’idea di Valditara non piace.
Penso che gli insegnanti debbano essere pagati in base al merito (misurarlo non è facile, ma è sempre meglio dell’alternativa), che i più fannulloni debbano essere licenziati, e penso che nelle zone del Paese a più alto degrado sociale vadano mandati gli insegnanti migliori, con un sostanzioso bonus stipendiale.
Qualcosa di simile viene fatto in Scandinavia, dove (forse non a caso) il ruolo dell’istruzione pubblica nel garantire mobilità sociale è maggiore.
Detto ciò.
In un’economia di mercato funzionante (la nostra non è né funzionante né – spesso – di mercato) i salari vengono fissati in relazione:
1) alla produttività
2) al costo della vita.
Brevemente ricordiamo il perché:
1) Se il salario nominale cresce più della produttività del lavoro, il costo del lavoro per unità di prodotto sale, le aziende perdono competitività e nella migliore delle ipotesi non creano risorse per crescere. Nella peggiore chiudono o chiedono (e in Italia ottengono) soldi pubblici per non chiudere.
Se, invece, il salario nominale cresce meno della produttività del lavoro, abbiamo una iniqua distribuzione a vantaggio di chi possiede il capitale.
2) COSTO DELLA VITA. Se il salario nominale è uguale, ma nella zona A la vita costa il 20% più che nella zona B, nella zona A il salario reale (l’unico che conta, per il funzionamento dell’economia) sarà più basso del 20%.
Così otteniamo due risultati pessimi:
nella zona A i lavoratori sono danneggiati da un potere d’acquisto inferiore (con tutti gli effetti di domanda insufficiente che ne derivano)
nella zona B la domanda di lavoro da parte delle imprese è più bassa di quella che potrebbe essere, danneggiando quindi i disoccupati.
Chiunque in Italia si azzardi a ricordare questi due -invero piuttosto semplici – meccanismi di funzionamento delle moderne economie di mercato, viene accusato di essere uno schiavista (per la produttività) e di voler reintrodurre le gabbie salariali(per il costo della vita).
Te lo dicono da sinistra (dove, sul mercato del lavoro, sono tornati al “salario variabile indipendente” degli anni 70) e da destra (dove non c’è analisi economica ma solo ricerca dello slogan più efficace).
Questa è la ragione per cui in Italia i salari non verranno mai fissati in accordo con produttività e/o costo della vita.
State tranquilli: noi pochi difensori della razionalità economica lo abbiamo capito bene, e da tempo. E ci sta bene. Con l’età abbiamo imparato a non prendercela.
Una sola cosa chiediamo in cambio: almeno risparmiateci lo spettacolo indegno di un paese che – in mezzo secolo – non riesce a fare neanche un piccolo passo in avanti nel dibattito pubblico.
Non dico nelle politiche realizzate, eh. Ma almeno nel dibattito pubblico.