Il mio articolo su Il Sole 24 Ore del 22 ottobre 2024
Dal 2000 ad oggi l’Italia ha aumentato il rapporto tra spesa pubblica e Pil del 8,7%, contro un 2% della media UE. Il più alto incremento in Europa, e nulla hanno a che fare con questo gli interessi sul debito (la cui quota sul Pil è addirittura diminuita).
Nello stesso periodo, il Pil italiano in termini reali è cresciuto del 8,3% contro il 36,2% della media UE. Il più basso incremento in Europa e, escluso qualche isolotto oceanico, nell’intero pianeta Terra.
Correlazione non è causalità. Vale a dire, potrebbe benissimo darsi che le terribili performance di crescita dell’economia italiana in questo quarto di secolo non siano state direttamente causate dall’incremento di spesa pubblica occorso in questi anni.
Ma allo stesso tempo non si può prescindere da questo dato di fatto: da quando è iniziato il secolo, l’Italia ha aumentato la spesa pubblica in rapporto al Pil quattro volte in più della media Ue, ed è cresciuta quattro volte in meno.
La politica e il dibattito pubblico italiano non possono eludere la seguente domanda: ma se non a crescere di più, a cosa esattamente è servito l’incremento di spesa pubblica che ci ha portato ad essere il paese in Europa – con l’eccezione di Francia e Finlandia che hanno qualche decimale in più – che spende di più?
E questa domanda, o quantomeno la sua risposta, porterebbe il dibattito ad una ulteriore riflessione: c’è un utilizzo alternativo di queste risorse che sia maggiormente utile?
Le soluzioni sono due. La prima è prendere atto che spendiamo tanto, ma spendiamo male. Dovremmo imparare a farlo meglio. Riallocando la spesa da un settore pubblico ad un altro (ad esempio meno pensioni, più supporto alla natalità) e adottando strumenti obbligatori per aumentarne l’efficacia in ogni settore, partendo da una severa valutazione del personale che offre beni o servizi pubblici e degli effetti delle politiche pubbliche.
La seconda, magari complementare alla prima, è ridurre la spesa pubblica, per destinare quei soldi ad una parallela riduzione della pressione fiscale. Vale a dire, essere convinti che quelle risorse sono più efficaci se lasciate nelle tasche di famiglie e imprese di quanto non lo siano nelle mani dei politici e funzionari.
In Italia oggi non c’è un’offerta politica in grado di sostenere nessuna di queste due soluzioni. Non solo la politica, ma anche l’opinione pubblica reagisce con sdegno non solo quando si prospetta un euro di taglio di spesa in qualsiasi settore, ma anche quando non vi è un aumento giudicatosufficiente. Il problema di come finanziarlo non si pone, per costoro: la spesa avrà sempre un moltiplicatore tale da “ripagarsi da sola”, come sostengono destra e sinistra – ormai addirittura nelle proposte di legge presentate ufficialmente in Parlamento – in relazione ai loro cavalli di battaglia presso l’elettorato.
Il Piano Strutturale di Bilancio prevede che nei prossimi cinque anni la spesa primaria netta cresca in media dell’1,5% annuo in termini nominali. Ma negli ultimi trent’anni la spesa primaria è cresciuta ad un tasso medio quasi quattro volte superiore. Continua, insomma, la contraddizione fondamentale: la politica italiana si rapporta in un modo con l’elettorato, ma poi al governo è costretta ad agire in un altro. Alimentando così quel senso di disillusione e scarsa credibilità che sta minando irrimediabilmente la fiducia verso la politica e tutti i suoi esponenti.
Per me la soluzione è una forza politica che risolva questa contraddizione avendo il coraggio di prendere i voti sulla base di una proposta politica di riqualificazione e, contestualmente, riduzione della spesa pubblica. Quest’ultima non può avvenire, come puntualmente da anni accade ogni autunno, con un ministro dell’economia che ad ottobre chiedere ai ministeri di tagliare miliardi entro 90 giorni. Per ridurre ed efficientare la spesa serve tempo. Nel mio libro La Missione Possibile (Rubbettino) racconto l’episodio delle spese di manutenzione degli uffici giudiziari: grazie a analisi dei processi e cambiamenti organizzativi, quel budget fu ridotto di più della metà, a parità di servizio. Ma ci vollero alcuni mesi.
Occorre insomma coraggio politico per sfidare tabù che per decenni hanno portato consenso, coesione delle compagini governative e capacità di programmare oltre l’orizzonte di brevissimo periodo. Tutte caratteristiche assenti nell’attuale quadro politico. Ma non per una maledizione maya: solo perché la politica sembra arrendersi ad un declino che si può invece ancora evitare.