di Luigi Marattin e Raoul Minetti per Il Sole 24 Ore
Quel che in questi giorni sta avvenendo in Turchia è un ottimo caso di scuola per valutare le conseguenze di due argomenti di politica economica cari all’attuale maggioranza di governo italiana. Il primo è che la politica deve avere il sopravvento su tutte le dinamiche dell’economia, e i vincoli o le regole che essa esprime. Il secondo è che avere la propria sovranità monetaria è preferibile, so-prattutto per i benefici derivanti dalla possibilità di svalutare la moneta.
In Turchia l’economia si è progressivamente surriscaldata. Negli ultimi cinque anni il Pil è cresciuto cumulativamente di circa il 30% grazie anche ad un boom creditizio finanziato dall’ afflusso di capitali esteri. Dal 2012 al 2018 il debito estero turco è cresciuto dal 39% a più del 53% del Pil, mentre il credito bancario esteso a imprese e famiglie saliva di 20 punti percentuali rispetto al Pil. Questo ha portato l’inflazione sopra al 10% annuo, e avrebbe richiesto un parallelo incremento dei tassi di interesse decisi dalla banca centrale, che invece – in nome della «prevalenza della politica sull’economia» – sono rimasti negli ultimi quattro anni al 8% (fino alle ultime settimane, a crisi già iniziata).
Al Presidente turco Erdogan, infatti, non sembrava politicamente attraente alzare il costo del credito per famiglie e imprese, nonostante fosse la politica più idonea per evitare problemi più seri. E’ lo stesso meccanismo che si mette in moto quando un paese ad alto debito non vuole ridurre il deficit in fasi di ciclo economico favorevole: in nome della «prevalenza della politica sull’economia», si rifiuta di prendere le decisioni che evitano problemi nel medio periodo per paura di perdere consenso nel breve periodo.
La conseguenza di queste scelte (e questo ci porta al secondo argomento) è stata la perdita di fiducia degli investitori internazionali e l’innesco di una repentina fuga dei capitali esteri (sudden stop) che ha a sua volta prodotto un pesante deprezzamento della lira turca. La svalutazione della moneta, così agognata dai no-euro nostrani, non ha fatto altro che aggravare la situazione, aumentando sia il costo delle importazioni che il peso del debito denominato in valuta estera.
Il primo effetto ha ulteriormente accelerato le spinte inflazionistiche, mentre il secondo ha rapidamente deteriorato la situazione finanziaria di banche e imprese. Esattamente i due rischi che coloro i quali si oppongono ad ogni ipotesi di abbandono dell’euro da parte dell’Italia paventano da anni, di fronte alle pericolose ipotesi espresse – o sussurrate – da esponenti dell’attuale maggioranza di governo italiana.
Si valuta che negli ultimi 30 anni i fenomeni di sudden stops hanno avuto conseguenze economiche e sociali drammatiche: in media un crollo della crescita dell’economia del 3%, una significativa perdita di valore delle attività reali e finanziarie delle famiglie e una protratta contrazione della pro-duttività delle imprese. La lezione principale della crisi turca è quindi chiara. Se chi controlla le leve della politica economica innesca una crisi di fiducia con errori dettati dalla tentazione di massimizzare il consenso politico di breve periodo o inseguire gli slogan, non c’è sovranità monetaria che tenga: fuga di capitali, svalutazione, inflazione e crisi finanziaria sono l’esito più probabile. Una le-zione che, a quanto pare, è bene tenere presente anche nel dibattito italiano.