di Luigi Marattin per Il Riformista
Nei prossimi mesi – al netto di shock quali una malaugurata recrudescenza del virus – verrà definita la traiettoria della finanza pubblica italiana per la gran parte del decennio. Che, come mai nella storia recente, affronta un bivio dicotomico: o la sostenibilità strutturale, o il suo contrario (con tutte le conseguenze del caso). L’Italia, infatti, uscirà dall’emergenza Covid con un rapporto debito/pil compreso tra il 150 e il 160%. Se il tasso di crescita annuo dell’economia reale dovesse essere quello medio dei dieci o venti precedenti la crisi Covid (rispettivamente -0,2% e 0,4%), andremmo incontro molto presto a guai estremamente seri. Perché in nessuno dei due casi persino un’inflazione al target Bce (cioè al 2%) – di cui comunque non c’è traccia né troppa speranza – riuscirebbe a impedire al debito di essere su una traiettoria esplosiva, per impedire la quale sarebbe necessaria una serie di consistenti e stabili avanzi primari, la cui realizzazione renderebbe molto probabile un effetto recessivo.
Che a quei livelli di debito innesca, con estrema probabilità, una veloce spirale che porta, appunto, a guai molto seri. Per evitare tutto questo c’è una sola opzione: prendere nei prossimi mesi le decisioni giuste sia dal punto di vista macroeconomico che microeconomico. Vale a dire, utilizzare le risorse disponibili (quelle straordinarie derivanti dal Recovery Fund e quelle ordinarie derivanti dagli spazi di bilancio resi disponibili da un sapiente utilizzo delle risorse europee) per innalzare sia il tasso di crescita potenziale della nostra economia sia quello effettivo al di sopra del livello medio degli ultimi vent’anni. Il fallimento di questa sfida comporta, con estrema probabilità, le conseguenze di cui sopra.
In questa sede non mi occuperò del primo canale, ma solo del secondo. Vale a dire, l’utilizzo degli spazi di bilancio disponibili – o da recuperare attraverso revisione della spesa o rimodulazione di misure esistenti – per realizzare quegli interventi di politica economica che, pur essendo necessari, non sono finanziabili tramite il Recovery Fund. A mio parere questi spazi fiscali vanno utilizzati in un solo modo: una riforma complessiva del nostro sistema fiscale, da pensare, costruire e approvare (in quest’ordine, non quello inverso) nell’arco dei prossimi 15 mesi, e da far debuttare il 1 gennaio 2022. La rimanente parte di questa mia riflessione sarà dedicata dapprima a illustrare perché considero essenziale questa riforma per evitare lo scenario descritto in premessa e, successivamente, la mia opinione su quali direttrici debba seguire.
Il motivo per cui credo che la riforma fiscale dovrebbe convogliare tutte le risorse “ordinarie” disponibili ha quattro facce: una relativa alla dimensione degli spazi disponibili, una di ordine macroeconomico, una riguardante l’efficienza e infine una di ordine equitativo. Il primo motivo è semplice: le risorse disponibili sono poche, perché il consistente stimolo dato nel 2020 durante l’emergenza (circa sei punti di pil) ha ridotto lo spazio fiscale utilizzabile. E la politica italiana deve imparare a concentrare le risorse su poche priorità (o una, come in questo caso) invece di frazionare le risorse per “dare un segnale” a tutti i portatori di interesse, legittimi o meno. Il secondo motivo è di natura macroeconomica. Se l’esigenza fondamentale è indirizzare lo stimolo di domanda aggregata verso gli impieghi a più alto moltiplicatore, ci viene in aiuto la ricerca economica.
Che da qualche anno ormai ha raggiunto un ragionevole consenso sul fatto che il moltiplicatore delle risorse di parte corrente è massimizzato quando i tassi di interesse sono “schiacciati” sullo zero e quando si riduce la tassazione. Il primo elemento ci dice quando fare (ora, prima che la politica monetaria si normalizzi, cosa che prima o poi farà), il secondo cosa fare (una riduzione permanente del carico fiscale, capace di avere effetti di domanda ma anche di stimolo all’offerta di lavoro). Il terzo motivo riguarda la profonda inefficienza del nostro sistema fiscale. L’Irpef, la principale imposta italiana, è una delle imposte più complicate del mondo. In troppi ancora, soprattutto a sinistra, sottostimano il costo della complessità, soprattutto in campo fiscale. Contrariamente alla vulgata, non ha un problema di scarsa progressività, ma il suo contrario: uno studio di Banca d’Italia afferma che nei decili di reddito lordo intorno ai 20.000 euro annui, l’aliquota marginale effettiva staziona stabilmente sopra il 40%. Se aumentare l’offerta di lavoro comporta questi livelli di imposizione fiscale, è letteralmente impossibile generare crescita.
L’Iva ha al momento quattro aliquote: 4%, 5%, 10% e 22%. Sono maturi i tempi in cui ci si possa chiedere, con il dovuto approfondimento, a quale criterio esattamente si ispiri tale eterogeneità, anche per quanto concerne la numerosità e composizione dei panieri di beni e servizi sottoposti alle diverse aliquote. Forse uno schema più ridotto (magari con aliquota unica e con le esenzioni?) può, tra le altre cose, scoraggiare le pratiche elusive. L’Irap è un’imposta che ha come base imponibile i fattori produttivi. Quindi, per definizione, anti-crescita. Il quarto motivo attiene invece all’equità. Quasi mezzo secolo di interventi scoordinati e scomposti sull’Irpef hanno prodotto spaventose disuguaglianze (sia orizzontali che verticali) nel trattamento fiscale dei redditi delle persone fisiche. Il proliferare dei regimi sostitutivi, l’incredibile giungla delle tax expenditures, la sperequazioni tra diverse fonti di reddito (autonomo, dipendente o da pensione), il ruolo della famiglia e il sostegno alla natalità sono solo alcuni degli elementi che hanno reso la nostra Irpef il luogo in cui le disuguaglianze prosperano, anziché essere combattute.
Per tutti questi motivi, credo che sia opportuno che nei prossimi mesi la politica economica italiana concentri i propri sforzi – oltre che sul Recovery Fund – su una profonda e organica revisione del sistema fiscale. Che secondo me dovrebbe avere due principali caratteristiche. E cioè una massiccia semplificazione. Nella struttura dell’Irpef (aliquote, scaglioni, tax expenditures), negli adempimenti fiscali per lavoratori autonomi e professionisti, nelle aliquote Iva. Il sistema fiscale italiano deve diventare comprensibile, trasparente, digitale, accountable. La tassazione è il cuore del contratto sociale: se uno non funziona, difficilmente può farlo l’altro. Poi una riduzione del carico fiscale sul lavoro, con benefici concentrati sui redditi medio-bassi.
L’introduzione di un minimo esente nella tassazione dei redditi delle persone fisiche aiuterebbe non solo a indurre progressività al sistema senza bisogno di moltiplicare le aliquote, ma sarebbe anche una traduzione di un principio autenticamente liberale: la quota di reddito necessario per la sopravvivenza non viene toccata dallo Stato, qualunque sia il livello complessivo di introiti. Così come l’imposta negativa sarebbe una modalità – anch’essa di ispirazione liberale – per aiutare i più deboli senza distruggere l’incentivo al lavoro. E se il fisco deve diventare pro crescita, dovremmo perlomeno entrare nell’ottica di eliminare – con tutta la gradualità del caso – un’imposta come l’Irap. Senza se e senza ma.
Niente vieta ovviamente di anticipare al 2021 qualche modulo della riforma fiscale, a condizione di non procedere a tentoni ma di avere ben chiaro tutto il percorso. In quest’ottica, l’assegno unico per i figli – con la legge delega già approvata da un ramo del Parlamento – è un ottimo candidato. Il cantiere fiscale avrebbe tante altre dimensioni: la riforma del catasto, la riforma degli strumenti fiscali dei livelli di governo sub-nazionali, un approccio intelligente e non ideologico alla tassazione ambientale e tanto altro ancora. Ma tradizionalmente, nel dibattito italiano, il “banchetto per la cena” viene affossato proprio da chi cerca di metterci sopra quanti più piatti possibile. Le condizioni macroeconomiche per impostare un lavoro serio mirato a una riforma fiscale che raggiunga simultaneamente gli obiettivi di semplificazione, riduzione del carico fiscale e innalzamento permanente del tasso di crescita italiano, a mio modo di vedere, oggi ci sono. Forse per la prima volta. Non rimane che perseguire, e mantenere per il tempo che serve, le necessarie condizioni politiche.