Con la “delega fiscale” del 2015 il governo Renzi, tra le altre cose, introdusse gradualmente la fatturazione elettronica.
In quegli anni, si trattava di un provvedimento estremamente impopolare: ricordo manifestazioni di piazza di quasi tutti i partiti, toni durissimi nei dibattiti tv e in parlamento, persino sputi rivolti ai consiglieri economici che si recavano al lavoro.
Ora la fatturazione elettronica è universalmente accettata; da ogni parte si riconosce che è stata una novità utile, che ha anche contribuito a ridurre l’evasione Iva di circa 3,5 mld all’anno. Forse poteva essere gestita meglio nelle fasi iniziali (cosa, in fondo, non lo è?) ma nel complesso è stata un’ottima innovazione. Con le mie orecchie ho persino potuto sentire coloro che sputavano dire “ma sai, in fondo era una mia idea”.
Come spesso mi capita, andrò controcorrente.
Per quanto mi riguarda, infatti, la fatturazione elettronica non avrà mai raggiunto il suo scopo finché i contribuenti dovranno comunque provvedere a tenere i registri IVA e a effettuare le liquidazioni trimestrali dell’imposta.
Lo scopo della riforma, infatti, era proporre e realizzare uno scambio tra Stato e contribuente: trasferire il fisco online (garantendo quindi la tracciabilita’ completa), ma in cambio semplificare e disboscare la giungla della burocrazia e degli adempimenti da parte di chi lavora e produce.
Le riforme strutturali, se vogliono essere una cosa seria, si fanno così.
Dopo la solita sequenza di proroghe e rinvii da parte dei governi che seguirono, ora finalmente ci siamo.
Dal 1 gennaio infatti ha debuttato in via sperimentale la “dichiarazione precompilata dell’IVA” (dopo la precompilata dei redditi da lavoro dipendente e pensione, che ormai è una realtà consolidata): l’Agenzia delle Entrate mette a disposizione di 2,3 milioni di contribuenti Iva i dati di cui – grazie alla fatturazione elettronica – è già in possesso; il contribuente potrà visionarli, se necessario integrarli, e finisce qui. Senza bisogno di tenere i registri Iva o senza altra burocrazia.
Cosa ci insegna questa vicenda?
1) le riforme strutturali hanno bisogno di tempo per dispiegare i propri effetti positivi, anche in termini di consenso. C’è bisogno di tempo, cioe, per passare dagli sputi agli applausi.
2) processo di cui sopra viene meglio se inquadrato all’interno di uno scambio politico chiaro e definito (in questo caso: io Stato ti faccio passare al fisco online, ma in cambio ti rendo più semplice e veloce pagare le tasse), in cui siano chiare le finalità. E le tempistiche.