Intervista a Il Riformista, 8 giugno 2021
Il parlamentare di Iv, presidente della commissione Finanze della Camera, ci parla delle riforme da fare anche in questo settore. “Da gennaio a maggio, insieme al Senato, abbiamo svolto 61 audizioni. È arrivato il momento di trovare il massimo comune denominatore.”
Imposta di successione, riforma dell’Irpef, unione fiscale europea, global tax. Le tasse ritornano prepotentemente al centro del dibattito politico ed economico, in Italia, in Europa e nel mondo. Ne abbiamo parlato con Luigi Marattin, economista, parlamentare di Italia Viva e presidente della Commissione Finanze della Camera.
Enrico Letta ha proposto una imposta di successione per ricavarne una dote per i giovani. Come valuta questa proposta?
Se, come annunciato, la proposta verrà incorporata nella posizione ufficiale del Pd sulla riforma fiscale, verrà discussa in quell’ambito con il massimo rispetto. Personalmente credo che le perplessità con cui è stata accolta siano dovute al fatto che essa non era stata proposta nell’ambito di una riforma che portasse complessivamente ad una riduzione della pressione fiscale, e in particolare sui redditi da lavoro. E’ apparsa quindi come un incremento di tasse per finanziare un aumento di spesa. Che non è proprio la primissima cosa di cui abbiamo bisogno, diciamo.
Qual è il livello delle tasse di successione in Italia rispetto agli altri paesi europei? Dovrebbe o potrebbe aumentare?
L’aliquota dell’imposta di successione (4%) è più bassa rispetto alla media dei paesi che la applicano, così come lo è il gettito, pari a circa 800 milioni annui. Ci sono però due cose da aggiungere. La prima è che ci sono 12 paesi OCSE che non applicano alcuna imposta di successione; e la seconda è che, quando si tratta di proprietà immobiliari, si pagano anche l’imposta ipotecaria e quella catastale. In ogni caso, personalmente penso che si possa discutere e approfondire tutto. Ma nell’ambito di una complessiva riforma che alla fine porti ad una decisa riduzione della pressione fiscale, in particolare sui fattori produttivi.
L’idea di una dote ai giovani può essere sensata ed efficace o è solo una proposta bandiera?
La politica italiana è strana. Per anni si è messa sotto accusa la “politica dei bonus” praticata dal governo Renzi, intendendo le misure puntuali di sostegno (bonus 80 euro, bonus insegnanti, bonus mamma, bonus 500 euro per i 18 enni), a cui invece si diceva di preferire riforme strutturali. Se mi consente una battuta amichevole verso gli amici del Pd, probabilmente ero io che avevo inteso male: il punto, si vede, era sostituire la parola “bonus” con “dote”….
Quali misure fiscali potrebbero essere più efficaci per garantire dei vantaggi ai più giovani?
Non ho detto che la “dote” non possa essere efficace, dipende da come si vuole concretamente strutturare la misura. Personalmente, credo che ci siano anche tante cose non-monetarie di cui un 18enne di oggi possa aver bisogno per entrare da protagonista nell’età adulta: un sistema universitario eccellente che consenta pari opportunità a tutti, una formazione professionale rinnovata, un potenziamento degli Istituti Tecnici Superiori. Per finire con un mondo del lavoro che consenta a tutti di giocarsi la propria chance, e non solo a chi ha la fortuna di nascere nella famiglia con le conoscenze giuste.
Lei ha sostenuto che per fare una riforma fiscale bisogna partire dalla “ricostruzione della casa”, prima di “appendere i quadri”. Che vuol dire?
L’attuale sistema fiscale deriva da una legge delega approvata dal governo un mese prima del primo sbarco dell’uomo sulla Luna. In questo mezzo secolo ha subito diversi interventi, tutti scoordinati tra loro, confusi, sovrapposti e a-sistematici. Come risultato, abbiamo uno dei sistemi fiscali più complessi, inefficienti, scoordinati e iniqui del mondo. E quando vivi in una casa diroccata e pericolante, la soluzione non è mettersi a toccare questa o quella colonna, questa o quella parete. Perché rischi solo di peggiorare la già precaria stabilità dell’edificio. La soluzione è una sola: abbatterlo e costruirlo daccapo. Un sistema fiscale per questo secolo, non per la metà di quello scorso.
Le commissioni Finanze di Camera e Senato stanno lavorando da alcuni mesi per costruire un progetto di riforma fiscale. Che cosa avete fatto finora? A che punto sono i lavori? È possibile trovare una convergenza tra le diverse forze, approfittando del clima politico attuale?
Da gennaio a maggio abbiamo svolto 61 audizioni. I migliori esperti del settore, le istituzioni nazionali e internazionali (dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca d’Italia, dalla Corte dei Conti all’Istat, dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio all’Ocse), le associazioni di categoria, le parti sociali. Con tutti abbiamo discusso di come rifondare dalle fondamenta il nostro sistema fiscale. Ora, dopo tanto ascolto e tanta analisi, è venuto il momento di trovare il “massimo comune denominatore” tra le posizioni delle forze politiche, in un documento conclusivo che approveremo a fine giugno e che darà il via al percorso della riforma. È questo il lavoro – delicato e complesso – che stiamo facendo in queste settimane, e di cui ringrazio tutti a partire dal collega Luciano D’Alfonso (presidente della Commissione Finanze del Senato) che assieme a me sta cercando di portare a termine questo lavoro di coordinamento e sintesi.
Come si sta muovendo Mario Draghi sul tema delle tasse e della riforma fiscale? Il Pnrr può dare il giusto impulso?
All’inizio il governo era intenzionato a istituire una commissione di esperti per scrivere la legge delega sulla riforma fiscale (che sarà presentata entro il 31 luglio), analogamente a quanto ha fatto per le riforme della giustizia penale e di quella tributaria. Ma alla fine ha deciso di basarsi sul documento conclusivo del lavoro delle commissioni parlamentari, e di riservarsi di istituire una commissione apposita solo per la fase dei decreti attuativi. Si tratta di una grande responsabilità affidata alle forze politiche, soprattutto da parte di un governo spesso a mezza bocca accusato di voler fare tutto da se. Ma proprio per questo motivo è un esame di maturità per i partiti, che devono dimostrare, sul fisco, di saper passare dalla comodità dello slogan elettorale alla fatica e alla responsabilità delle scelte e del compromesso. Se dovessimo fallire, daremmo un’arma in più a chi è convinto che la politica ormai serva solo a far caciara, e per le cose serie occorre rivolgersi altrove.
Quali sono i problemi dell’Irpef così come è concepita attualmente?
Tra i tanti ne scelgo tre. È complessa. Il manuale di istruzioni per il modello 730 ha 341 pagine, e nessuno è più in grado di rintracciare dove siano e come si parlino le più di 800 norme tributarie. È inefficiente. Già su livelli di reddito ancora bassi (intorno ai 18 mila euro lordi annui) la media delle aliquote marginali effettive per un lavoratore dipendente sta intorno al 40%: significa che se uno deve scegliere se lavorare un po’ di più per guadagnare 100 euro in più, sa che gliene rimarranno in tasca solo 60; con livelli del genere, questo paese a crescere non ci torna più. Ed è iniquo: più della metà del peso dell’Irpef sta su coloro che guadagnano dai 35.000 euro lordi l’anno in su; occorre alleggerire la pressione sul ceto medio, che è il vero tartassato di questi ultimi due decenni.
Allarghiamo lo sguardo all’Europa. Il Next Generation Eu può essere considerato l’embrione di una politica fiscale comune?
Se c’è una cosa che abbiamo imparato in 30 anni di unione monetaria, è che essa non può funzionare senza meccanismi di condivisione del rischio finanziario e fiscale. A dire il vero ce l’aveva già insegnato 50 anni fa un grande economista da poco scomparso (il premio Nobel Robert Mundell), ma si sa che a volte i tempi della politica sono lunghi. La condivisione dei rischi finanziari si raggiunge completando l’unione bancaria e realizzando l’unione del mercato dei capitali, arrivando in prospettiva anche ad una Borsa unica; la condivisione dei rischi fiscali si ottiene allargando il bilancio comunitario e permettendogli di indebitarsi al fine di finanziare spesa pubblica comune su tutta l’Unione. Che è quello che fa, come esperimento, il NGEU. Il compito di dimostrare che l’esperimento merita di essere reso permanente sta proprio in capo a noi italiani, che siamo i destinatari della quota maggiore di risorse.
Si parla sempre più di una web tax sulle Big Tech e di una tassa minima globale sulle grandi corporation. Joe Bidensembra andare in modo deciso in questa direzione. I paesi europei sembrano avere il medesimo indirizzo. Come valuta queste proposte e questo dibattito? Le posizioni di Usa e Ue sono compatibili?
Questo è il fronte più importante di politica economica internazionale per i prossimi anni. La scelta di Joe Biden non va necessariamente vista in termini romantici (gli USA hanno bisogno di finanziare uno stimolo fiscale senza precedenti pari a 6 mila miliardi di dollari, e hanno quindi bisogno di alzare le tasse sulle imprese senza essere minacciati dalla concorrenza fiscale di alcuni paesi) ma è comunque una svolta epocale. Il dibattito che si svolgerà al G20 in luglio, proprio in Italia, è cruciale e a mio avviso dovrà curare soprattutto due dettagli. Innanzitutto se il limite minimo di tassazione debba essere specificato in termini di aliquota legale o effettiva: nel primo caso si fissa un’aliquota ma poi un Paese può sempre ridurre l’imposta netta con deduzioni e detrazioni; nel secondo, la multinazionale non può comunque, alla fine, pagare meno di una determinata percentuale sugli utili realizzati in quel paese. È il secondo fronte da monitorare con attenzione è il rapporto tra questa “global minimum corporate tax” e una tassazione specifica sui giganti del web. I maligni dicono che il motivo per cui si punta così tanto sulla prima e’ evitare che si raggiunga l’obiettivo della seconda. Vedremo.
In Italia, alcuni vedono nell’iniziativa di Joe Biden la fine del liberismo economico, un modello di intervento da imitare e un ritorno del ‘tassa e spendi’. Ma è possibile seguire Biden su questa linea anche in Europa? Soprattutto, ha senso paragonare due realtà così diverse – specie a livello fiscale – come Usa e Italia?
La pressione fiscale in Italia è 42,4%, negli USA 24,5%. Il cuneo fiscale in Italia è 48%, negli USA il 29,8%. Il total tax rate sulle imprese in Italia è 59,1%, negli USA 36,6%. Le assicuro che se vivessi negli USA, anch’io farei più di un pensierino al “tassa e spendi”. Ma in Italia credo ci sia bisogno, invece di, “tassa meno e spendi meglio”.