Da un anno e mezzo le regole fiscali dell’Unione monetaria sono sospese, e lo saranno per un altro anno e mezzo.
Questa situazione – specialmente in un paese come il nostro, che quelle regole le ha sempre avversate o mal tollerate – ha dato l’impressione che esse fossero sparite per sempre. Dissolte, come un ricordo di una stagione lontana. Qualcosa di cui non dobbiamo più occuparci.
E invece in Europa è in pieno svolgimento un dibattito su quali debbano essere, a partire dal 2023, le nuove regole fiscali dell’Unione monetaria europea.
In Italia questo dibattito è quasi del tutto assente. Ne ha scritto qualche giornalista economico, e qualche partito – meritoriamente quanto inaspettatamente- comincia a rendersene conto. Ma complessivamente il tema è del tutto fuori dai radar dell’opinione pubblica e dell’informazione, attualmente concentrati sulla pace tra Conte e Grillo e su quante volte a settimana si sentano, esattamente, Renzi e Salvini.
Eppure, le regole fiscali europee hanno condizionato in maniera decisiva la politica economica italiana nel quarto di secolo precedente l’inizio del Covid; e lo faranno – probabilmente in maniera ancor più decisiva – nel quarto di secolo che seguirà la fine del Covid.
Quali sono i punti su cui le forze politiche in Italia possono cominciare una discussione che abbia una ragionevole probabilità di trovare un accordo (su base nazionale, al fine poi di portare la discussione sui tavoli Ue)?
Partiamo dalle basi:
1) servono nuove regole fiscali dell’area euro, semplicemente perché vogliamo rimanere nell’area euro.
2) servono regole fiscali, e non i deliri del tipo “ognuno faccia il deficit che vuole, tanto poi ci pensa la Bce a comprare il debito in eccesso”
(Se qualcuno pensa che questi primi due punti siano scontati, ho da mostrarvi qualche centinaia di video di interventi parlamentari o trasmissioni Tv in cui esponenti politici di alcuni partiti dell’attuale maggioranza)
3) le nuove regole fiscali devono basarsi su variabili che siano osservabili e correttamente misurabili. Questo significa che il Pil potenziale – che dal 2013 dominava le vecchie regole fiscali Ue – va lasciato alle aule accademiche. Non perché sia un concetto sbagliato o inutile: ma semplicemente perché del tutto inadatto, causa i suoi enormi problemi di misurabilità accurata, a determinare regole che devono essere semplici, chiare e trasparenti.
4) le regole fiscali Ue servono a correggere le esternalità negative che si possono determinare tra paesi che condividono la politica monetaria ma non quella fiscale. Tali esternalità derivano da accumulazioni eccessive di debito pubblico nazionale in rapporto al Pil. Se è così, conseguentemente, le nuove regole fiscali devono avere un unica variabile-obiettivo: il rapporto debito-Pil di ogni stato.
5) tale obiettivo deve essere fissato su base pluriennale (obiettivo annuali sono troppo soggetti a fluttuazioni o shock temporanei), tenendo conto per quanto possibile del ciclo economico (pur senza dover ricorrere al Pil potenziale) e sulla base di target numerici definiti paese-per-paese e che non appartengano alla fine degli Anni 80 del secolo scorso (ogni riferimento al parametro del 60% – che era la media dello stock del debito/Pil quando Bennato e la Nannini cantavano Notti Magiche – è puramente voluto).
6) il rispetto dell’obiettivo deve essere garantito. Il Patto di Stabilità e Crescita è stato violato diverse centinaia di volte, senza che sia mai stata erogata nessuna sanzione. Una regola che non preveda sanzione, semplicemente, non è una regola.
In Europa in questo momento si discute anche di altro. Come ad esempio fissare – oltre all’obiettivo – uno strumento da tenere sotto controllo per garantire il raggiungimento dell’obiettivo. E si parla di una “regola della spesa”, che tenga sotto controllo la spesa pubblica corrente primaria, al netto dei co-finanziamenti Ue.
Quest’ultimo punto va, a mio giudizio, valutato con molta attenzione (e prima che in Europa si formi un consenso su di esso). Può darsi che sia una buona idea, può darsi di no.
Ma se la politica italiana cominciasse a discutere seriamente dei sei punti precedenti – e magari trovare un accordo in merito, per mandare con più forza il governo a discutere nei tavoli Ue che si apriranno – sarebbe già una rivoluzione.
Perché per una volta, prenderemmo i temi con l’anticipo che serve, e non saremmo costretti a inseguire l’emergenza solo perché ci interessano le cose solo se hanno un impatto sul sondaggio settimanale.
Vale a dire, per una volta giocheremmo in attacco e con metodo, e non semplicemente di rimessa e di istinto.
Nel calcio c’abbiamo vinto un Europeo. Ora non resta che farlo in politica.