di Luigi Marattin per Linkiesta.it
Guardando gli ultimi dati sulla dichiarazione dei redditi del 2020 si nota che coloro che guadagnano circa 2 mila euro al mese pagano più del 41% della principale imposta italiana, pur rappresentando il 5% dei contribuenti. Il presidente della Commissione Finanze della Camera Luigi Marattin spiega che bisogna intervenire sull’Irpef, l’imposta regina del nostro scombinato ordinamento tributario.
Pochi giorni fa il dipartimento delle finanze del ministero dell’Economia ha messo a disposizione gli ultimi dati delle dichiarazioni dei redditi, consultabili da chiunque a questo link.
Si tratta di dati relativi ai redditi conseguiti dagli italiani nel 2020. Pertanto occorre fare subito due precisazioni:
- Sono riferiti ad un anno in cui il Pil (che altro non è che il reddito aggregato di una nazione) ha fatto registrare la peggior caduta in tempo di pace, diminuendo in termini reali di circa il 9% rispetto al 2019. Come conseguenza, il reddito complessivo dichiarato nel 2020 ai fini Irpef registra una diminuzione del 2,2% (circa 19,5 miliardi) rispetto all’anno precedente.
- Non tengono conto, ovviamente, della riforma dell’Irpef contenuta nella Legge di Bilancio 2021, che ha impiegato 7 miliardi all’anno per ridurre le aliquote (sia in livello che in numerosità, passando da 5 a 4) e rafforzare le detrazioni, ma i cui effetti si vedono solo nelle buste paga di queste settimane e si vedranno solo tra due anni nelle statistiche fiscali.
Ciononostante, come ogni anno, vale la pena dare un’occhiata approfondita a questi dati. Fa sempre bene, infatti, capire bene come davvero funziona la principale imposta italiana.
C’è però un’ulteriore precisazione da fare: ricordare che questi dati si riferiscono alla sola Irpef. Vale a dire, comprendono i redditi da lavoro dipendente, da pensione, da lavoro autonomo (tranne i contribuenti in regime forfettario), il reddito derivante da partecipazione in società e assimilate.
Non comprendono invece – oltre ai lavoratori autonomi in regime forfettario – le società di capitali e praticamente tutti i redditi da capitale (che sono sottoposti a tassazione sostitutiva, sebbene non omogenea).
Quindi un’occhiata a questi dati non restituisce un’immagine del sistema fiscale italiano, ma “semplicemente” della sua imposta principale (l’Irpef), che nel 2020 ha portato nelle casse dello Stato circa 154,3 miliardi, su 411,3 miliardi di complessive entrate tributarie riferite alla sola amministrazione centrale.
Finite le necessarie premesse, è ora di guardare i dati: come sta la nostra Irpef? O almeno, come stava prima dell’ultimo intervento di riforma del dicembre scorso?
Questa figura riporta la risposta – articolata per fasce di reddito – alla domanda fondamentale: fatto 100 il mio reddito complessivo, alla fin fine (dopo calcolo di aliquote, deduzioni, detrazioni, trattamenti integrativi, ecc) quanto si paga di Irpef?
Questa è la curva che misura il grado di progressività di un’imposta. In particolare:
- Se è crescente, siamo in presenza di un’imposta progressiva, perché all’aumentare del reddito, cresce la quota di tale reddito che va allo Stato. Una curva molto inclinata comporta una progressività più forte rispetto a quella implicata da una curva meno inclinata.
- Se è decrescente, siamo in presenza di un’imposta regressiva (per il motivo opposto)
- Se è piatta, siamo in presenza di un’imposta proporzionale (la cosiddetta flat tax).
L’aliquota media effettiva calcolata su tutti i contribuenti è del 17,84%. Significa che fatto 100 tutto il reddito aggregato dichiarato in Italia ai fini Irpef, 17,84 centesimi vanno allo Stato.
Una semplice occhiata alla curva ci conferma che la nostra Irpef è sicuramente progressiva: la curva infatti è crescente lungo tutto il tratto. Salta però agli occhi che la pendenza non è uniforme, ma varia: sotto i 50 mila e sopra i 100 mila l’Irpef sembra essere più progressiva che nella fascia 50- 100 mila, dove si annida il cosiddetto vero ceto medio.
Mentre possiamo ragionevolmente soprassedere sulla parte oltre i 100 mila, viene da chiedersi se è davvero ottimale che la velocità con cui cresce la tassazione su un’ora di lavoro aggiuntiva quando guadagno 30 mila euro all’anno debba essere superiore a quella che ho quando invece ne guadagno il triplo.
In ogni caso, bene non mischiare i piani: un conto (come abbiamo fatto finora) è giudicare la pendenza della curva dell’aliquota media effettiva, per giudicare il grado di progressività dell’imposta; vale a dire, quanto velocemente sale l’imposizione fiscale al crescere del reddito. Altro conto è verificare il livello della curva (e quindi del peso fiscale) e soprattutto come tale peso sia distribuito tra contribuenti. Come stiamo per fare.
Il 31% dei contribuenti (12,8 milioni su circa 41 milioni) non versa neanche un euro di Irpef. Si tratta di coloro la cui imposta lorda è azzerata dalle detrazioni, oppure quelli la cui imposta netta è azzerata dal trattamento integrativo (il cosiddetto “bonus Renzi”, poi esteso da Conte proprio nel 2020).
Nel primo scaglione (0-15 mila euro) ci sono 18,3 milioni di contribuenti, una cifra non lontanissima dalla metà assoluta di tutti i contribuenti (il 44,5%). Costoro pagano il 2,7% di tutta l’Irpef italiana, e in media 17,5 euro al mese. Questo spiega perché è così difficile ridurre l’Irpef sui contribuenti a reddito basso: essi, infatti, praticamente già non pagano l’imposta. E questo spiega altresì perché se si vuole aumentare il reddito disponibile di costoro, è inutile agire sul cuneo fiscale, proprio perché non vi è “spazio” sufficiente. Occorre invece agire invece sul cuneo contributivo, come non a caso il Governo ha fatto nell’ultima legge di bilancio per i lavoratori dipendenti con reddito inferiore ai 35 mila euro annui, sebbene con un intervento valido solo per quest’anno.
Se allarghiamo lo sguardo comprendendo i primi due scaglioni, scopriamo che circa l’80% di tutti i contribuenti Irpef (32,6 milioni di individui) paga circa il 30% di tutta l’imposta.
D’altro canto, i poco più di 2 milioni di contribuenti con reddito complessivo superiore ai 50.000 euro annui (stiamo parlando, approssimativamente, di coloro con uno stipendio netto mensile pari o superiore ai 2 mila euro), pur essendo il 5,5% dei contribuenti sopportano da soli il 41% di tutto il peso Irpef.
Questa breve analisi pertanto dimostra un fatto piuttosto semplice: coloro che guadagnano da circa 2 mila euro al mese (netti) in su, avranno anche un andamento della progressività meno marcato rispetto ai contribuenti con reddito inferiore ma – pur rappresentando poco più di 5 contribuenti su 100 – pagano più del 40% di tutta l’Irpef italiana.
Questa analisi è alla base dell’intervento fatto in Legge di Bilancio 2022, ricordato in premessa. Che ha destinato il beneficio maggiore proprio alla fascia di reddito attorno ai 2 mila euro netti al mese nel tentativo di dare maggiore equità al sistema. E si tratta dell’intervento contro cui due organizzazioni sindacali (CGIL e UIL) hanno proclamato il primo sciopero generale dopo 7 anni, con l’accusa al Governo di “voler favorire i ricchi”.
Anche dopo questo primo intervento di riforma, non è difficile concludere che l’Irpef, l’imposta “regina” del nostro ordinamento tributario, abbia ancora un sacco di problemi. Dalla complessità (e equità) delle detrazioni al disegno ottimale della progressività, dalla distribuzione del carico tributario al troppo gettito evaso.
Si tratta di argomenti che, nelle intenzioni del Governo e delle Commissioni Finanze di Camera e Senato, avrebbero dovuto essere affrontati, trai numerosi altri, nel “secondo tempo” di riforma fiscale, vale a dire nell’attuazione del disegno di legge delega sulla riforma fiscale (AC 3343) attualmente all’esame della Camera.
Ma solo dopo il weekend pasquale scopriremo se questo finale di legislatura potrà essere dedicato, assieme a tante altre cose, a continuare a mettere un po’ d’ordine nello scombinato sistema fiscale italiano, oppure se dovremo rassegnarci a sentir parlare di fisco solo sui manifesti elettorali, tra qualche mese.