di Luigi Marattin per Il Foglio
Cinque punti per un nuovo patto tra rappresentanti e rappresentati. L’obiettivo: ristabilire un equilibrio tra la democrazia rappresentativa italiana e gli elettori.
Nel cantiere di quello-che-ormai-non-si-riesce-più-a-evitare-venga-chiamato “Grande Centro” (ma che per il sottoscritto dovrebbe essere il Partito Liberal-Democratico) sembrano al momento due gli esiti più probabili. Il primo è che i prossimi mesi vedano ognuno degli aspiranti-leader assumersi l’onere e l’onore di convocare la Grande e Unica Convention Fondativa in cui dare avvio al processo. Ovviamente giorno, ora, luogo, programma, percorso e impostazione sono definiti dall’aspirante-leader stesso, che però si presume abbia almeno il buongusto di comunicarlo con qualche giorno di anticipo agli altri, rigorosamente a mezzo stampa o social.
Questa strada, già iniziata, rischia di vedere come minimo una dozzina di “appuntamenti fondanti” – in cui non si fonderà un bel niente – ma che nella migliore delle ipotesi vedrà mantenere rapporti decenti, basati sul reciproco scambio di cortesie: “Io vengo alla tua Grande e Unica Convention Fondativa se poi tu vieni alla mia”. Il secondo esito è il “modello Spa”, e presuppone l’arrivo dell’amministratore delegato, per gli amici Papa Straniero. Una persona finora fuori dai giochi (con la g minuscola, importante precisarlo), che rappresenti l’immagine esterna della società, e che abbia tre caratteristiche: non stia sulle scatole a nessuno dei soci, abbia un’immagine pubblica nuova e apprezzata, e soprattutto non abbia troppe vere velleità politiche.
La terza condizione è quella più difficile da trovare: nella Seconda Repubblica due volte ci si è trovati nella condizione di dover trovare una figura del genere (con Prodi negli Anni 90 e con Conte nel 2018), ed entrambe le volte per i soci non è finita poi benissimo. A quel punto è fatta: i soci comprano ciascuno una quota della SPA, sulla base della media degli ultimi sondaggi, e la usano o per piazzare i propri contenuti nel programma comune o per piazzare i propri manager. Se siamo fortunati entrambe le cose, se invece ci va male, solo la seconda.
Credo sia evidente che nessuno dei sopra citati esiti pare desiderabile per chi scrive. Il primo perché rappresenterebbe un’esternalità negativa per tutti: ognuno, infatti, sarebbe danneggiato dall’incapacità di costruire un’offerta politica unitaria e coerente e dall’immagine caotica e litigiosa che ne conseguirebbe. E il secondo perché una nuova offerta politica non è una Spa, non è un condominio, e non è neanche una multiproprietà. E gli italiani sembrano averlo capito meglio dei politici. Qual è l’alternativa? Quella meno probabile. Ma, come spesso accade, forse quella migliore. Invece di comprarsi una quota di una società finta, dedichiamoci a costruire insieme la ragione sociale di una cooperativa nuova.
In autunno, convocati da qualche volenteroso esponente della società civile che subito dopo ripari all’estero per non dare strane idee, riuniamo in una stessa sala coloro disposti a condividere i seguenti due concetti. Il primo: il programma di governo per la legislatura 2023-2028 è innanzitutto il Pnrr, come scritto e iniziato ad attuare dal governo Draghi. Il secondo: a trent’anni dalla fine della Prima Repubblica serve un nuovo Patto tra “rappresentanti” e “rappresentati”(cit.Alexander Hamilton), da scrivere insieme e da proporre agli italiani.
Alcuni distratti spunti, senza alcuna pretesa. i) L’Italia non ha bisogno di “più mercato”, e non ha bisogno di “più Stato”: ha bisogno di “più mercato e miglior Stato”. ii) l’Italia non ha bisogno di “più crescita di risorse” e non ha bisogno di “più redistribuzione di risorse”: ha bisogno di più crescita di risorse e più redistribuzione di opportunità, facendo di quell’inscindibile binomio tra pari opportunità e meritocrazia il faro dell’azione politica ad ogni livello. iii) se davvero stiamo entrando in una nuova fase conflittuale dei rapporti internazionali, non abbiamo il minimo dubbio su da che parte stare: con gli Stati Uniti, la peggior società aperta a parte tutte quelle provate finora (semi-cit), e per un’Ue sempre più sovrana. iv) la Repubblica deve sperimentare una imponente e radicale opera di riforma dell’architettura istituzionale (dalle fusioni comunali al bicameralismo, passando per regolamenti parlamentari e federalismo fiscale), attraverso cui rendere più forte, efficiente e inattaccabile la nostra democrazia. v) Ogni comparto della vita pubblica che abbia resistito alla necessità di ripensarsi a fondo e adattarsi al nuovo contesto della globalizzazione (dalla scuola al fisco, dalla pubblica amministrazione al mercato del lavoro) deve essere accompagnato attraverso una graduale ma radicale opera di cambiamento, guidata dai principi i) e ii) di cui sopra. I prossimi mesi ci diranno quale delle opzioni gli uomini e le donne di buona volontà giudicheranno più utile perseguire. Utile ai loro interessi e, sperabilmente, soprattutto a quelli del paese.